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“La vita è un viaggio obbligato”. Gipo, lo zingaro di Barriera – di Francesca Torregiani

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La vita è un viaggio obbligato. Gipo, lo zingaro di Barriera

di Francesca Torregiani

Novembre 2016, trentaquattresima edizione del Torino Film Festival, scorrono le immagini: Luca Morino, musicista e cantante dei Mau Mau, trova uno scatolone davanti alla porta del suo negozio. Dentro c’è del materiale su Gipo Farassino: libri, vinili, foto e articoli di giornale, ma anche oggetti personali e ricordi intimi.
Un ritrovamento non casuale: chi lo ha recapitato lo sta invitando a compiere un viaggio sulle tracce dello chansonnier. Seguendo gli indizi presenti all’interno del pacco, Morino incontrerà personaggi legati al mondo farassiniano, inoltrandosi in una Torino nascosta e mistero per i più; sarà catapultato in oniriche situazioni e surreali incontri.
Con il film Gipo, lo zingaro di Barriera, sostenuto da Piemonte Doc Film Fund e Fondazione Crt, il regista Alessandro Castelletto vuole raccontare la storia di un uomo, ma soprattutto il mondo della Barriera di Milano, eterna terra di nessuno, che sta dietro il suo percorso artistico e personale; quartiere periferico e popolare di Torino in cui Farassino nacque nel 1934; luogo circoscritto geograficamente, ma emotivamente universale e illimitato: indelebile luogo dell’anima.
Un documentario autentico, come il suo protagonista, lungi dal creare un mito, è un’occasione per riscoprirlo, rendergli omaggio, dargli il posto che merita nel panorama artistico locale e nazionale: conoscere la figura di Farassino, “Johnny Cash sabaudo” come lo definisce il regista stesso, artista sottovalutato e spesso etichettato con facili stereotipi; ma è anche un’opportunità per compiere un viaggio al centro della natura più profonda di un uomo.
Un paese ci vuole anche soltanto per il gusto di andarsene via, un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”: lo scrive Pavese all’inizio de La luna e i falò. È un modo di essere e di vivere la vita che potrebbe sottoscrivere anche Gipo Farassino, grande artigiano dell’arte, di musica e teatro, straordinario animale da palcoscenico, persona dalla schiena diritta, uomo di radici e vagabondaggi, di terra e di cielo. Sulle note di Porta Pila, La mia città e Sangon Blues si riflette e si sorride; si volta lo sguardo verso un passato che resta ben ancorato nel nostro presente con tutte le sue paure e le sue incertezze.
Durante la sua carriera, cominciata nel 1961, Farassino ha pubblicato trenta album in cui si alternano brani caratterizzati da una tagliente ironia e altri socialmente impegnati: Senza Frontiere, in cui criticava fortemente la guerra in Vietnam, proprio per il testo giudicato non adatto al pubblico fu respinta dalla commissione del Festival di Sanremo del 1970. Di quegli anni è anche la sua storica amicizia con Fabrizio De Andrè, con cui condivise poesia ed eccessi e con cui era solito passare le serate dopo i concerti, bevendo e cantando.
Ha attraversato i momenti più difficili della storia del nostro Paese, le contestazioni del ‘68, quelli bui all’inizio degli anni Ottanta, sapendo raccontare con un sorriso al contempo dolce e amaro ciò che stava succedendo nella sua città di operai, di quelli che avevano il Sangone come unico mare e che sognavano il riscatto dalla loro condizione, sopravvissuti nella resilienza di un mondo che ha confuso il gigantismo con la modernità e considerato ciò che è piccolo come arretrato; discendenti dei “vinti” di verghiana memoria, che hanno visto infrangersi i sogni del dopoguerra e che invecchiano soli e tristi in una casa di periferia.
Poesia e rabbia, calma e burrasca, dolcezza e ferocia: Gipo è tutto questo, animato dall’orgoglio unico e dall’intelligenza raffinata del barrierante. È la Barriera, la strada, il luogo dello smarrimento, ma anche il luogo del riscatto, luogo non contaminato dal perbenismo borghese: “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” cantava il suo amico De Andrè, in cui “una bimba canta / la canzone antica della donnaccia”, dove l’amore sacro e l’amor profano vanno a braccetto: virtù e degrado, dignità e povertà, forza e fragilità. Radicato alla sua terra, alla sua città severa e austera, osservatore della realtà, dotato di un’attenzione profonda e, come dice Paul Celan, “l’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima”, preghiera che per Farassino è diventata il concavo che risponde al convesso della vita.
Raccontare la città, dal numero 6 di via Cuneo, Ël 6 ëd via Coni, l’é na cà veja che gnanca na volta, l’era nen bela, canta Gipo, la casa dove è nato: un edificio a tre piani del primo Novecento, tra corso Giulio e corso Vercelli. Terra di confine, di barriera appunto, che un tempo si allungava fino a Vanchiglia e Vanchiglietta. Il Circolo Familiare Campidoglio, vicino alla Pellerina. E poi dai Goffi, il ristorante di corso Casale dove Gipo andava a mangiare. I teatri che sono stati casa sua, dall’Italia di via Nizza, che non c’è più, all’Erba, dal Massaua al Gobetti. Lo si comprende dalle parole degli intervistati durante lo scorrere dei fotogrammi del documentario: Giovanni Tesio e Vito Miccolis, Johnson Righeira e Umberto Bossi. Tutti dicono che Gipo aveva un’anima forte e coraggiosa. E questa Torino è parte della sua anima.
Anima spesso etichettata da stereotipi quali Gipo cantastorie dialettale o co-fondatore della Lega Nord. Ma Gipo era molto di più: poeta delicato, cantore dei vinti, cabarettista brillante, giullare delle periferie. Nel repertorio in piemontese si è spesso avvicinato al cabaret e all’umorismo: nei suoi anni migliori, con le sue canzoni, ha cantato le miserie e le nobiltà della gente comune, le tribolazioni dei travet torinesi e gli amori infelici consumati nell’atmosfera parigina del capoluogo piemontese, cinquant’anni di malinconica storia urbana dal sogno americano alla grande immigrazione, dalla fabbrica al bar.
“C’è chi dice che questo di far sognare sia il compito di noi artisti: ma allora chi resta a raccontarci la realtà? I giornali?”, chiedeva Fabrizio De Andrè: “Io non vendo sogni: i sogni si sognano, la realtà si guarda, si racconta”.
Questione di sguardo, appunto. Quello di Gipo è lo sguardo di un vero poeta, capace di immergersi nei mari dell’esistenza per osservarla dal profondo, uno sguardo colmo di pietas nella sua sincera essenza antiborghese e anarchica. Le sue maschere, mai banali, ci raccontano un pezzo della storia del nostro Paese, delle nostre miserie e delle ipocrisie, delle ingenuità di provincia, delle meschinità di quel nascente deserto urbano. Gipo sapeva riconoscere quel deserto perché lo sapeva abitare; i suoi occhi, anche se stanchi e indeboliti da una vita severa e crudele, erano sempre bene aperti sulla verità della vicenda umana; radicato nella storia con il sorriso disincantato e con il pianto che abitava le sue canzoni, perché, come cantava, “la vita è un viaggio obbligato. C’è chi il viaggio lo paga per intero, chi lo paga a tariffa ridotta, chi non lo paga affatto e chi lo paga anche per gli altri”.

Questo articolo ha ricevuto una menzione alla X edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura

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