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L’eremita di Pocapaglia – di Fabio Dellavalle

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Breve vita e bizzarrie di Settimio Grasso

di Fabio Dellavalle

A testa in giù l’hanno seppellito. Era il giorno di ferragosto del 1945, in un bosco tra le Rocche di Pocapaglia, uno di quei paeselli arroccati sulle colline del Roero “alla sinistra” del Tanaro.
La storia di Settimio Grasso, l’eremita di Pocapaglia, merita senz’altro di essere raccontata e tramandata. Quasi come una di quelle narrazioni, a metà tra la cronaca e la leggenda, che popolano ancora gli immaginari rurali di questo territorio a Sud del Piemonte. Come l’episodio della Masca Micilina, condannata al rogo per stregoneria dal Tribunale dell’Inquisizione; oppure il caso di Delpero il bandito del Roero. Vere e proprie fiabe sono, invece, la Barba del Conte raccolta da Italo Calvino, o quella del Diavolo che scavò le Rocche di Pocapaglia dove, così è se vi pare, “l’asino fischia e il padrone raglia”.
Settimio Grasso fu effettivamente un personaggio degno di nota. Era nato sotto la Zizzola – il monumento simbolo di Bra – il 17 luglio 1905, da Irene Del Nero e Andrea Grasso. Il padre era un rispettato impiegato comunale e il fratello un devoto sacerdote. Anche Settimio aveva cercato di intraprendere la via seminariale, salvo poi abbandonarla.
Un cranio da Cottolengo” lo descrive Giovanni Arpino, altro “zizzoliano” doc, nel romanzo L’ombra delle colline. “Sembrava Rasputin fuggito dalla Russia in cerca di asilo politico!”. Alto e forte come un castagno, portava una lunga barba nera, incarnando a pieno la figura dell’asceta saggio e selvaggio. Passava le giornate a scorrazzare col cavallo per le vie della città nei giorni del mercato. Il resto della settimana lo trascorreva pulendo il pavimento lurido del mattatoio.
Quando il figlio di un fabbro di Predappio iniziò a incitare le masse italiche, ne divenne un fervente sostenitore. Partì volontario per l’Abissinia, alla conquista dell’impero… e quando tornò dalla guerra pensò bene di rifugiarsi in una grotta, che scavò con le sue stesse mani proprio in mezzo alle Rocche, quelle vertiginose voragini che sprofondano nella sabbia e nell’argilla dove un tempo c’era il mare, erose dalla cosiddetta cattura del fiume Tanaro (oppure da Belzebù in persona), nella località chiamata America dei Boschi.
All’interno della spelonca iniziò la sua nuova vita da anacoreta, a metà strada “tra un uomo e una volpe”. Conduceva un’esistenza a dir poco frugale, in compagnia di una capra e qualche gallina, accontentandosi delle offerte lasciate dai passanti, in cambio di una preghiera per Dio o Mussolini, un rimedio a base di erbe per evitare una gravidanza indesiderata, qualche parola di greco e latino, sprazzi di riflessioni filosofiche retaggio degli anni in seminario. Pare che venissero in visita da lui persino le dame di Torino, incuriosite da questo tipo così bizzarro.
Quella caverna divenne quasi una meta di pellegrinaggio, dove pii o semplici curiosi si recavano per pregare davanti alla statua della Madonnina posta in una nicchia vicino all’ingresso della grotta. Fuori dalla sua personale spelonca, un piccolo orto, il recinto per il pollame e un recipiente per l’acqua piovana. Dentro, un giaciglio con una coperta e gli utensili per una zuppa. Indossava un fez rosso, oltre a un saio sotto a un lungo mantello nero, simile a quelle che portavano i questuanti del Canté j’oeuv.
Tra una scorribanda e l’altra al mercato di Bra riuscì comunque a rubare il cuore della figlia di un certo Mago, che sposò e da cui ebbe dei figli. Ai contadini del posto non è che fosse poi così inviso; anzi, dopo una giornata a spaccare legna tra ricci e funghi, scambiare due parole con una sagoma così poteva anche essere piacevole.
Poi venne un’altra guerra, a casa nostra questa volta. Dati i suoi ardori politici, non è difficile immaginare da che parte si schierò. Ma incominciò pure a interessarsi di borsa nera, contrabbandando quello che si trovava per sconfiggere altri tosti nemici: la miseria e la fame. Si diceva inoltre che facesse la spia per i fascisti, svelando i rifugi dei partigiani e i loro movimenti. Secondo altri, era piuttosto la moglie che cantava per le camicie nere. Fatto sta che, tornata la pace, non ci pensarono due volte i partigiani a zittire le fastidiose ombre dei boschi.
Con una spedizione punitiva vennero fucilati entrambi, e seppelliti al contrario nelle viscere della terra. “Tanti saluti, il tuo eremita è bell’e sistemato” sono le aspre parole che Arpino mette nella bocca di Milton, il partigiano che avrebbe sparato ai due. In seguito, i loro corpi furono sepolti al cimitero.
Ancora oggi, chi s’incammina attraverso i sentieri di Pocapaglia può imbattersi in un qualche cartello didascalico che illustra la vicenda. Per chi invece non si accontenta soltanto delle parole stampate sui libri o sulle insegne turistiche, il consiglio è ovviamente di spingersi oltre, chiedendo magari ai paesani più anziani di Pocapaglia qualche informazione su Settimio Grasso. Oppure di inoltrarsi direttamente in mezzo alle fitte trame della macchia boschiva del Roero, per andare a vedere cos’è rimasto della grotta dell’eremita.
Questo articolo ha ricevuto una menzione alla X edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura

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