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San’Andrea a Vercelli: dal genio cospopolita di Guala Bicchieri un’opera innovativa ed europea nel Piemonte del Duecento – di Franco Caresio

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Sant’Andrea a Vercelli
Un’opera innovativa ed europea nel Piemonte del Duecento grazie al genio cospomolita di Guala Bicchieri

di Franco Caresio

La storia
Ci vollero pochi anni per costruire, fra il 1219 e il 1225-27, la grande chiesa abbaziale di Sant’Andrea a Vercelli. Un edifico cruciale per l’affermazione del gotico in Italia: cronologicamente, si colloca dopo le esperienze Cistercensi di Casamari e Fossanova, ma precede nettamente il cantiere della basilica di San Francesco ad Assisi.
In quel primo ventennio del XIII secolo altre importanti fondazioni monastiche – ad esempio, Staffarda nel Saluzzese, Casanova vicino a Carmagnola, Rivalta Scrivia a Tortona – erano già state costruite in Piemonte, o si avviavano ad essere completate, nelle linee dell’arte gotica portata in Italia dai Cistercensi. Ma nei cantieri di ampliamento o di trasformazione di abbazie più antiche – in primis la Sacra di San Michele – filtravano, non senza resistenze e con qualche improvviso riflusso verso il passato, i nuovi modelli artistici giunti d’oltralpe.
E Sant’Andrea di Vercelli si collega idealmente non già alle altre esperienze gotiche piemontesi, ma alle cattedrali che già

Plastico del complesso, esposto all’interno della chiesa

da qualche decennio andavano segnando le maggiori città europee, di Francia e Inghilterra soprattutto. A queste l’edificio vercellese fa riferimento in termini concettuali e di rapporti con i ceti emergenti cittadini della nuova borghesia, non certamente al modello culturale cistercense il cui orizzonte era quello della terra e dell’attività agricola.
Sant’Andrea sorge dunque all’interno del tessuto urbano, a poche centinaia di metri dall’antica cattedrale nei cui confronti non si pone in antitesi, perchè diverso è il suo obiettivo. Anticipando in un certo senso – con il suo grande monastero, il bellissimo chiostro, lo studium, la domus hospitalis per i pellegrini e per l’assistenza agli ammalati – esperienze parallele che i nuovi ordini religiosi dei predicatori (i Domenicani) e dei mendicanti (i Francescani) svilupperanno soprattutto in area urbana, riconosciuta come nuovo campo di impegno religioso e come laboratorio del pensiero, degli studi umanistici e universitari.
E tuttavia, mentre si collega al modello intellettualistico delle cattedrali di Francia e Inghilterra, Sant’Andrea non opera una rottura completa nei confronti dei modelli del passato, perché i nuovi caratteri gotici maturati oltralpe, perfetti nella loro fase progettuale e di certo avviati nella loro fase iniziale con l’impiego di maestranze franco-inglesi, dovevano confrontarsi con una prassi costruttiva affidata in larga parte a maestranze locali. E proprio nel cantiere vercellese si materializzò l’incontro dei nuovi modelli del primo goticod’oltralpe e di quelli antichi della migliore architettonica romanico-padana. Con risultati straordinariamente unitari e di forte coerenza stilistica per l’intero complesso: chiesa con pianta a croce latina orientata da est a ovest, a tre navate e transetto sul cui innesto si sviluppa un poderoso tiburio (elemento che si trova in altre chiese dell’area padana), abside centrale rettangolare e quattro absidiole minori laterali a profilo curvilineo, chiostro quadrangolare porticato con il lato a est dedicato, secondo la razionale prassi cistercense, a ospitare i servizi comuni della vita dei monaci:la sala capitolare, il refettorio, la cantina, i dormitori.
L’enorme impegno costruttivo per edificare in sei-otto anni chiesa, monastero e ospedale porta necessariamente a ipotizzare l’esistenza di un committente di grande prestigio, un architetto progettista, un capo cantiere o maestro d’opera; e di un consistente capitale iniziale e cospicue fonti di reddito capaci di assicurare afflussi finanziari continui e molto rilevanti.
Del committente conosciamo il nome, così come è nota l’origine delle favorevoli condizioni economico-finanziarie che gli consentirono di profondere una quantità enorme di denaro nella costruzione del complesso.
Il 19 febbraio del 1219 è infatti il cardinale Guala Bicchieri a guidare la cerimonia solenne per la posa della prima pietra di fondazione della nuova chiesa. Già alcuni anni prima il cardinale aveva acquistato un’antica chiesa, pure dedicata a Sant’Andrea, e un gruppo di casupole che sorgevano nelle sue vicinanze, in area urbana. Personaggio straordinario, il cardinale Guala Bicchieri: nato forse intorno al 1170 nell’aristocrazia cittadina vercellese, fu una figura eccezionale di diplomatico, mecenate e collezionista.
La vastità e la complessità del cantiere e il poco tempo a disposizione rendevano necessaria una progettazione meticolosa di tutti gli aspetti, e di conseguenza la presenza costante di un capo cantiere o maestro d’opera in grado di coordinare un numero elevato di maestranze giunte da luoghi diversi. Di questo personaggio i documenti non ci hanno tramandato il nome, ma il riferimento a Benedetto Antelami e alla sua scuola è suggestivo, e forse anche plausibile, non solo per ragioni stilistiche ma anche storiche.
Vescovo di Vercelli ai tempi di Guala Bicchieri era l’emiliano Ugone di Sesso che in precedenza, e per diversi anni, era stato canonico del Duomo di Fidenza; a lui il cardinale aveva delegato la responsabilità del grande cantiere durante le sue prolungate assenze per impegni diplomatici. Appare dunque plausibile l’ipotesi che sia stato proprio Ugone a proporre a Bicchieri di affidare la fabbrica vercellese a Benedetto Antelami e alle sue maestranze che già avevano lavorato con ottimi risultati a Fidenza. È tuttavia probabile che, in considerazione della vastità dell’impegno costruttivo e del poco tempo concesso dal committente, con Antelami abbiano lavorato al complesso di Sant’Andrea, oltre a gruppi di lapicidi e scultori franco-inglesi, anche maestranze provenienti da un altro dei suoi cantieri, ad esempio Parma, oppure di formazione lombardo-campionese.

La struttura
La facciata, chiusa ai lati da due alte e slanciate torri, è esempio dell’armonica integrazione fra la suggestione gotica e la tradizione del romanico padano. Lo schema compositivo generale – profilo a capanna, tre profondi portali, due torri laterali – deriva parzialmente dalla facciata della cattedrale di Fidenza, ma a Vercelli viene risolto in termini del tutto nuovi con l’abbandono del protiro sui portali e del ricco apparato scultoreo, che ancora compaiono a Fidenza, per privilegiare i nitidi
valori delle superfici e dei volumi, i ritmi di ombre e luci sviluppati dalla stessa struttura architettonica, i delicati rapporti cromatici fra il paramento in pietra grigia, il rosso dei mattoni, il bianco degli intonaci, con il progressivo alleggerimento delle strutture e lo sciogliersi delle tensioni nella salita verso l’alto. È probabile che nemmeno in origine le due torri laterali – a sette piani, rivestite sino all’altezza dello spiovente del profilo di facciata con la stessa pietra grigia, per poi proseguire in mattoni e intonaco – fossero adibite a campanile. Solo gli ultimi tre piani sono aperti prima da monofore, poi da bifore e infine da trifore. Sulla cuspide conica della torre di sinistra un anemometro in rame a forma di gallo simboleggia la vigilanza nella fede, mentre su quella di destra una Croce di Sant’Andrea ricorda la dedicazione della chiesa.
La grande, solenne superficie della facciata, cresciuta senza ripensamenti su un’idea architettonica che si intuisce omogenea e di chiara concezione progettuale, è segnata nella parte inferiore dai tre maestosi portali con arco a tutto sesto e forte strombatura interna svilippata dall’articolarsi di otto esili colonnine per lato, con raffinati capitelli a crochet nello stile del più puro gotico francese. Sui capitelli si innestano le ghiere dell’arco superiore che incorniciano le lunette sulle porte. Di particolare interesse è la lunetta del portale centrale, con la scultura a bassorilievo dedicata al Martirio di Sant’Andrea, a lungo ritenuta opera di Benedetto Antelami ma probabilmente di qualche allievo. Nella fascia superiore, scolpita a intrecci vegetali e rosette, un angelo accoglie entro una corolla di fiori l’anima del martire, mentre nella sottostante architrave un’epigrafe sintetizza il significato della lunetta: “Predica Andrea paziente e la plebe crede. Egea, che rifiuta di credere, cade nelle insidie del demonio. Una devota e molto pia donna compone nel sepolcro il corpo dell’Apostolo”. Di più modesto risultato artistico sono invece le lunette degli altri due portali.
Un fascio di esili colonnine che si prolungano elegantissime sino alla fascia superiore delle due loggette sovrapposte divide i tre portali, segna la scansione delle navate interne imprimendo all’intera facciata un forte verticalismo e incornicia il grande rosone centrale. Due cornici racchiudono il raffinato dischiudersi di dodici colonnine raggiate sui cui capitelli si innestano archetti che, intrecciandosi, danno vita a profili a tutto sesto sul bordo esterno e ogivali su quello interno.
Il rosone – delicamente, splendidamente gotico nella sua straordinaria leggerezza di ricamo marmoreo – sviluppa inaspettate armonie con le due loggette sovrapposte che segnano orizzontalmente la parte alta della facciata. Il motivo della galleria praticabile, semplice o sovrapposta, è un elemento tipico dell’architettura romanico-padana e il suo recupero a Vercelli segnala l’attività di maestranze e maestro d’opera di area lombardo-emiliana.

L’interno
Un altro elemento architettonico di chiara derivazione padana è l’alto e massiccio tiburio costruito all’innesto delle tre navate con il transetto. Di pianta ottagona, ha la parte inferiore, più ampia, interamente in mattoni, alleggerita dall’apertura di finestre rotonde e dalla presenza della loggetta su colonne. I due piani della parte superiore, più stretta, e la cuspide conica con otto piccole guglie riprendono i motivi architettonici e decorativi delle due torri della facciata. In origine, e almeno sino al 1407, la parte terminale del tiburio era adibita a cella campanaria, ma la comparsa di vistose fenditure nei muri consigliò di costruire un nuovo campanile, in forme massicce ma sostanzialmente fedeli alle linee del tiburio e delle torri di facciata. Monofore, bifore, trifore – tutte doppie per ogni facciata – scandiscono progressivamente le specchiature segnate da una lesena centrale e da archetti pensili marcapiano.
Predominante appare all’interno della chiesa la lezione architettonica d’oltralpe, nel purissimo slancio verticale delle strutture e nella spazialità interamente e pienamente gotica, con poche concessioni al persistere della tradizione padana.
Le proporzioni solenni e austere, la spoglia semplicità delle decorazioni limitate alla modulazione di valori cromatici fra il grigio della pietra, il rosso dei mattoni e l’ocra pallido dell’intonaco, raggiungono inusuali splendori di luminosità dilatata, di sacralità potente e maestosa. La luce piove a fiotti dal rosone della facciata, dalle tre lunghe monofore e dal rosone che si aprono sulla parete di fondo dell’abside maggiore, e dalle altre monofore o finestre rotonde che scandiscono i fianchi. La luce diventa concreta, palpabile, avvolgente; si materializza quella ricerca di luminosità che aveva motivato la nascita e lo sviluppo dell’arte gotica.
Le tre navate sono divise da eleganti pilastri a fasci di colonne, su base rotonda in pietra, realizzati con una soluzione tecnica che sembra ricondurre al lavoro di maestranze franco-inglesi più che padane: ogni colonna appare come fasciata da esili colonnine, alcune delle quali, di altezza più ridotta e con capitelli a crochet, reggono gli archi lungitudinali fortemente ogivali fra le navate e gli archi delle crociere delle navate laterali, mentre su altre tre colonnine, molto allungate e con capitelli a fogliami avvolgenti, si innestano gli archi trasversali delle sei campate e le costolature delle volte a crociera. Assumono proporzioni maggiori soltanto i quattro pilastri del capocroce, all’innesto delle navate con il transetto, che hanno la funzione di sorreggere la massa del tiburio. Anche in questo caso, le soluzioni tecnico-architettoniche appaiono del tutto nuove con l’adozione, ad esempio, di quattro “nicchie a ventaglio” per dimezzare pianta del tiburio da otto a quattro lati, e di una loggia-galleria interna destinata a ridurre il peso della sovrastante struttura. All’interno di ciascuna “nicchia a ventaglio”, poggianti su colonnine addossate alla parete, si trovano quattro sculture in pietra con i simboli apocalittici degli Evangelisti, lavori molto vicini a quello della lunetta del portale centrale e per i quali è stato ipotizzata l’opera dell’Antelami o di scultori della sua scuola.
Un prezioso coro ligneo del cremonese Paolo Sacca, che lo realizzò fra il 1511 e il 1513, è appoggiato alle pareti della parte terminale della lunga abside.
Sul lato orientale del transetto, secondo lo schema organizzativo cistercense, si aprono quattro cappelle, due a destra e due a sinistra dell’abside centrale. Nella seconda cappella del lato destro si trova il monumento funebre dell’abate Tommaso da Parigi, detto “Gallo” per la sua origine francese, che testimonia l’intensa attività intellettuale dell’abbazia vercellese. Tommaso, notissimo maestro di teologia all’Universita parigina, apparteneva all’ordine dei Canonici Regolari di San Vittore e il cardinale Guala Bicchieri l’aveva scelto per guidare il gruppo di “Vittorini” chiamati a Vercelli perchè l’abbazia di Sant’Andrea diventasse centro europeo di studi e di dottrina. E i risultati non tardarono a farsi sentire se nel 1228, sia pure per breve tempo e per motivi contingenti, a Vercelli si trasferì l’intero Ateneo di Padova. Nello
studium dei Sanvittori fu studente anche Sant’Antonio da Padova, che la tradizione vuole rappresentato nel dipinto Incoronazione della Vergine che occupa la fascia alta del monumento come uno dei sei “scolari” che assistono alla lezione di Tommaso.

Il chiostro
Da un severo portale sulla parete di fondo del transetto di sinistra (ma esiste un altro ingresso nell’edificio che, a ovest del complesso, fiancheggia la facciata della chiesa) si entra nel grande, bellissimo chiostro, di pianta quadrilatera e interamente porticato. Non ha più le forme originarie del primo ventennio del XIII secolo – l’attuale chiostro è frutto dei consistenti lavori di ristrutturazione e parziale ricostruzione voluti dall’abate Gaspare Pettenati nel primo ventennio del
Cinquecento – anche se molti elementi lasciano intuire che i caratteri generali non ne siano molto lontani.
L’immagine complessiva lo colloca non tanto in ambito gotico quanto piuttosto in un già avviato, se non completamente concluso, passaggio alle forme rinascimentali di ispirazione lombarda. Reperto dell’età gotica, cioè dell’epoca di costruzione dell’abbazia di Sant’Andrea, è invece, a fianco del portale che dalla chiesa immette nel chiostro, la nicchia dell’acquasantiera sormontata da un arco trilobato poggiante su colonnine binate che affiancano una vaschetta rotonda. È molto probabilmente opera di maestranze francesi, ancora attive nel cantiere di Vercelli intorno al 1230.
Gli interventi edilizi e decorativi compiuti nel primo ventennio del ‘500 sotto il governo dell’abate Pettenati, ai quali sono da aggiungersi le importanti campagne di restauro avviate in più occasioni nell’Otto e nel Novecento, devono indurre a molte cautele nell’affrontare altre parti importanti del chiostro, in particolare di quelle strutture che costituivano il vero cuore della vita monastica comunitaria. Ad esempio, la sala capitolare, il cui impianto generale è in perfetta sintonia con le sale capitolari delle abbazie di Staffarda e di Rivalta Scrivia, ma che qui appare come una sintonia di immagine, offrendo sensazioni di rimaneggiamenti e ripensamenti nei volumi, nelle cordonature delle volte a crociera che risultano troppo massicce e grevi, troppo perfettamente squadrate rispetto all’esile e plastico aprisi come petali floreali delle cordonature presenti a Staffarda e a Rivalta Scrivia. Per altro, i quattro capitelli appaioni come lavori di egregia fattura gotica, nobilissimi esempi dell’arte più raffinata maturata nell’Ile de France, così come le colonne sembrano rivelare lavorazione antica. L’ipotesi è che, negli interventi cinquecenteschi e nei restauri che si sono succeduti, anche la sala capitolare sia stata interessata da consistenti lavori pur salvando elementi – capitelli e colonne, appunto – reimpiegate nella loro posizione strutturale originaria.

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