Enter your email Address

Il disastro dimenticato – di Anna Baretta

0

Il disastro dimenticato
L’alluvione di Biella del 1968

di Anna Baretta

Due novembre 1968. Piove su Biella, da ore ormai. Chiaro, a Biella piove sempre, ma questa volta è diverso. Quasi seicento millimetri di pioggia hanno inzuppato il terreno e una grande tragedia, una di quelle che la storia sembra aver dimenticato, si sta consumando. È già notte nel primo pomeriggio, quando un buio prematuro e la nebbia avvolgono la città. Il cielo diventa viola e arancione. Un rombo forte, continuo, inquietante riempie l’aria: è la pioggia, che non accenna a fermarsi. Sono i torrenti, ormai fiumi, che corrono e portano con sé tutto quello che trovano. Sono le campane, suonate per dare l’allarme. La gente ha paura, capisce che c’è qualcosa che non va.
Le zone più colpite dalla pioggia sono quelle del Biellese orientale, in particolare la zona collinare di Vallemosso e le valli limitrofe. Si tratta di un’area che oggi è forse sconosciuta ai più, ma che allora era la più ricca della zona e una delle più ricche d’Italia. Qui era stata fondata da Sella, a inizio Ottocento, la prima fabbrica tessile meccanizzata del Paese.
L’acqua, la stessa acqua che nel novembre ’68 si portò via tutto, cose, animali, persone, era la ricchezza della valle. Abbondante, con un livello di durezza basso, è perfetta sia per fornire energia, sia per lavorare la lana. Presto la gente del luogo, con un’intraprendenza naturale e un senso del lavoro “calvinista”, aveva favorito il fiorire di fabbriche e la città, prima un insieme di poche case e poche persone, si era espansa. L’industria laniera, in cui già la zona era specializzata, aveva conosciuto una crescita impressionante facendo di Biella una delle capitali mondiali del tessile, un titolo che ancora mantiene con orgoglio.
Sull’onda del successo si era costruito ovunque, con affanno, e, come spesso succede in questi casi, la bramosia di affari aveva inebriato molti e offuscato il buonsenso: case e fabbriche erano state erette pericolosamente vicino agli alvei dei torrenti e sulle colline recentemente disboscate. Tutta l’area era incline ai dissesti idrogeologici, non era un mistero, ma gli uomini pensano sempre che i disastri non toccheranno loro e si ostinano a mettere se stessi e i propri simili a rischio.
Quella notte tra il due e il tre novembre, la pioggia incessante dalle montagne inizia a unirsi al fango e a scendere verso valle, causando frane in un terreno naturalmente instabile. Una frana, due frane, dieci frane: non si riesce nemmeno a tenere il conto. Il nord est della provincia non ha più strade, ha fiumi melmosi pieni di detriti che nella loro corsa si mangiano tutto ciò che trovano: persone, animali, alberi, automobili, macchinari, pezzi di case diventano vittime del disastro, e allo stesso tempo contribuiscono a distruggere ogni cosa al proprio passaggio. L’acqua, che aveva portato ricchezza e lavoro, si sta portando via il lavoro di una vita e la speranza.
Gira voce che la diga di Camandona, a monte di Vallemosso, stia per cedere: è un falso allarme, per fortuna, infatti l’ispezione degli esperti non trova una sola crepa nella struttura. Ma la situazione è comunque tragica. I soccorsi da Biella non riescono ad arrivare, i ponti che collegano il centro alle zone circostanti sono crollati o sommersi: la città è quasi un’isola. Non funzionano le linee ferroviarie, né le strade, né le telecomunicazioni. Solo gli elicotteri raggiungono le zone colpite e scoprono che intere aree sono completamente distrutte. Nemmeno i cimiteri sono risparmiati, le bare sono trasportate via dalle acque ad aggiungere un dolore in più quando, dopo il disastro, si dovranno anche cercare i morti strappati dalle loro tombe.
Le fabbriche, più di cento, devastate: saranno trovate spole dei lanifici di Vallemosso persino a Vercelli, a chilometri di distanza. Questi edifici, una colonna portante della vita locale, sono sventrati. Alcune imprese non si riprenderanno più, altre si trasferiranno nella pianura. Più di tredicimila persone finiranno in cassa integrazione.
Ma i biellesi da sempre puntano più sui fatti che sulle parole, e la maggior parte delle fabbriche, ostinate e laboriose come i loro padroni e operai, si rimetteranno in piedi con una fatica enorme, ma a tempi record. In un solo mese, i primi telai ripartono. Significativo che, tra tutti i detriti, a rimanere inspiegabilmente in piedi siano proprio una chiesetta a Bioglio e una ciminiera, quella dell’azienda Botto Poala, nella valle.
Il tre novembre la pioggia inizia a diminuire. È tempo di contare i danni: cinquantotto morti, centinaia di aziende colpite, trecento senza più una casa in cui tornare. Economicamente, si parla di trenta miliardi di lire, una cifra altissima, anche se quantificare è difficile – come si calcola la perdita di opportunità e di sicurezza? E quella di vite umane? Per fortuna tutto è successo nella notte tra il sabato e la domenica: se gli abitanti fossero stati a lavoro o a scuola, le vittime sarebbero potute essere molte di più.
Manca tutto, persino l’acqua da bere. È tristemente ironico, c’è acqua ovunque, ma non è potabile.
Lo Stato interviene e concede aiuti, finanziamenti e agevolazioni per rimettere in piedi la valle. Le autorità visitano le zone colpite e assicurano il proprio sostegno. Ma fanno molto di più i tantissimi volontari, tra cui molti studenti, che da ogni parte del Paese arrivano a dare una mano. L’Italia, sempre così divisa, nelle tragedie si ricorda sempre dell’unità. E fa molto anche la popolazione locale, che non si dà per vinta e lavora duramente per tornare alla normalità. Almeno in parte ci riuscirà.
Molte cose sono cambiate da allora: le case crollate sono state sostituite da enormi condomini di oltre venti piani, degli alieni ingombranti. Tantissime fabbriche hanno saputo reggere alla forza dell’acqua, ma non a quella della globalizzazione e dei prezzi bassissimi della manodopera straniera: oggi sono molte meno, e hanno dovuto puntare tutto sulla maglieria e sui tessuti di lusso – cashmere, alpaca, mohair – in cui sono ancora un’eccellenza mondiale. Ma quello che era una volta un serbatoio apparentemente infinito di posti di lavoro è oggi un angolo dimenticato: la gente prima arrivava da ogni parte del Paese, oggi se ne va.
La tragedia è stata dimenticata. Quando mai si parla dell’alluvione del 1968? Forse perché Biella è da sempre una città timida, che non si fa sentire ed è chiusa in se stessa. Forse perché è caduta, ma si è saputa rialzare con così tanta forza che i segni del disastro non sono più così evidenti. Ma la storia e gli avvertimenti della natura non dovrebbero essere snobbati così: se dessimo un po’ più di peso ai disastri del passato, forse riusciremmo a prevenire quelli del futuro.
Questo articolo ha ricevuto il terzo premio alla X edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Cultura

Comments are closed.

Exit mobile version