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Tra fuochi ed alberi: i giovani e le tradizioni – di Luca Ciurleo

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Tra fuochi ed alberi
I giovani e le tradizioni
di Luca Ciurleo

Un suono di campanacci, molesto, riempie le tenebre. Il lugubre suono di un corno risuona nella piazza. Il fuoco sta per essere acceso, bisogna chiamare a raccolta la gente. I ragazzi – nerovestiti, o con cappelli da pastore – hanno attaccato alle pelvi un grosso campanaccio di mucca: al suono del loro “capo” accendono il fuoco, che avvampa veloce, avvolgendo, nel giro di pochi minuti, i due fantocci, che rappresentano il più vecchio e la più vecchia del paese.
Siamo a Premosello Chiovenda, paese dell’Ossola, in quel lembo di Piemonte incuneato nella Svizzera germanofona, in occasione della Carcavegia, un rito di origini precristiane (il richiamo è alla magia “simpatica” e al chiedere al sole di rinascere) che si svolge ancora oggi la notte del 5 gennaio.
Premosello, ma anche Pieve Vergonte, Vogogna, Piedimulera, Crevoladossola: sono molti i paesi ossolani che ospitano riti analoghi, fuochi sacri che ardono in occasione di inizio anno. Eventi definiti da tutti come “tradizioni”, in una retorica molto interessante: quasi per evitare qualsiasi confusione ogni fuoco ha un suo proprio nome preciso, calco di quel Carcavegia (etimologicamente “brucia la vecchia”) diventato “marchio di qualità” del falò di Premosello Chiovenda e Colloro.
Era il 2006 quando, per la prima volta, feci ricerca antropologica a Trontano, in occasione delle Cavagnette. Era il mese di novembre, per san Leonardo, compatrono del paese insieme alla Vergine, e di questi alberi rituali portati tradizionalmente in testa dalle fanciulle in età da marito era rimasto ben poco.
Quattro alberelli inseriti in un cestino – cavagn in dialetto, da cui Cavagnette – addobbati di nastri, fiori e immagini sacre, eredità di un’antica religione naturale probabilmente precristiana e inseriti nel culto cattolico. Una tradizione un tempo molto sentita, con fanciulle disposte a dare giornate di lavoro in cambio dell’onore di portare la cavagnetta in processione per la festa patronale, mettendosi in mostra sul mercato matrimoniale.
Quel novembre 2006 temetti di aver documentato l’ultima processione, inorgogliendomi non poco. L’anno prossimo difficilmente – credevo – le anziane che portavano solo tre dei quattro oggetti rituali, in costume tipico, avrebbero compiuto nuovamente questa processione.
Fortunatamente, venni smentito. Dopo una prima fase di ricerca ne spuntano un po’ dappertutto: alberi di cui non si avevano più notizie da una trentina di anni vennero ricostruiti e riportati in processione, a Trontano iniziarono a costruirsi nuove cavagnette.
Passano gli anni e, nel 2016, le cavagnette portate nelle processioni di agosto e di novembre sono una decina. Anche l’età delle donne portatrici si è molto abbassata: nel gruppo folk hanno fatto il loro ingresso diverse ragazze ventenni o anche più giovani.
Cosa hanno in comune questi due esempi? Apparentemente nulla, se non il fatto di essere percepiti come Tradizioni.
Tradizioni, cioè eventi che per definizione (anche se errata) proseguono immutati nel tempo, che fanno parte del processo di costruzione dell’identità delle varie comunità, che oggi divengono occasioni di rilancio turistico, di promozione del territorio; che vengono commercializzate, promosse, riprese, re-inventate – o spesso inventate di sana pianta! – e che costellano il territorio piemontese.
Parlare di tradizioni è senza dubbio complesso, in particolar modo in questi ultimi anni, in cui si è assistito ad un vero e proprio boom di questi eventi.
Sarà forse uno degli effetti della globalizzazione – o meglio dei “panorami” di Appaduraj – ma proprio nel momento in cui si rischia di perdere la propria identità in un mare di informazioni in cui siamo immersi/sommersi troviamo il maggior numero di feste nate appunto per reclamare, a gran voce e su scala globale, una propria unicità. Meglio se questa unicità affonda le sue basi in un passato – vero o supposto poco importa – astorico.
Quando nasce, infatti, una tradizione? Deve avere almeno dieci, cento, mille anni? O basta che venga percepita come tradizionale e quindi – inconsciamente – posta in un passato per definizione fuori dal tempo?
Era il tempo dei miti e delle leggende…” iniziava la serie tv degli anni ’90 dedicata ad Hercules, e analogo incipit potrebbe essere usato per quasi tutte le feste che troviamo. Basta infatti una ricerca veloce su Google con il termine “tradizione” per trovarsi immersi in un delirante e fittissimo calendario di feste, in un supermercato virtuale di migliaia di prodotti che proprio perché “tradizionali” costano di più; di rievocazioni medioevali a base di polenta (scoperta però nel 1500, a Medioevo ormai finito), e di equazioni tradizionale=rustico=integrale.
Oggi sembra quasi che nulla possa esistere se non affonda anche solo superficialmente le radici in un sostrato di tradizionalità. È proprio questo humus – unito al desiderio di riappaesamento e di ritrovare un passato fatto di relazioni umane senza interferenze tecnologiche – che fa da concime per un tale fiorire di eventi. Eventi che, in oltre metà dei casi, hanno una matrice alimentare diventando sagra; in altri casi c’è una perfetta commistione tra sacro e profano, tra celebrazioni religiose e pranzi, tra processioni e costine.
Gli esempi citati rendono quindi chiaro che oggi parlare di “tradizioni” deve necessariamente essere correlato anche al discorso di folklore e fakelore – cioè il folk inventato, ma presentato come se fosse realmente autentico – e a quello economico e turistico, oltre che al concetto di crisi identitaria e necessità di appaesamento.
Il mondo contemporaneo è fatto di tradizioni che vengono “tutelate” e sulle quali viene apposto addirittura un “marchio di qualità” (è il caso delle DeCo, le Denominazioni comunali nate come primissimo passo per la tutela di un prodotto enogastronomico e oggi utilizzate anche come marchio di qualità di eventi immateriali).
Tradizioni che, sempre più spesso, vengono portate avanti da giovani.
Una cosa che può sorprendere, soprattutto perché, nel giro di pochissimi decenni, c’è stato un radicale cambio di prospettiva, una modificazione epocale. Le tradizioni – la cui conservazione è, nell’immaginario comune, appannaggio degli anziani – vengono prese in mano dai giovani, i cosiddetti Millennial. Il ribaltamento di prospettiva è una vera e propria rivoluzione copernicana: a differenza dei loro coetanei degli anni ’50 e ’60, quando le tradizioni erano respinte e mandate al macero in nome di una supposta modernità (che causò l’inevitabile spaesamento e crisi dell’uomo post-moderno, sfociata oggi nella “società liquida” di Bauman), i ragazzi di oggi si impegnano attivamente per portare avanti questi eventi identitari, diventandone i promotori, le avanguardie. E spesso sono proprio i ragazzi quelli che meno si adattano ai cambiamenti – inevitabili – cui queste tradizioni vanno incontro. “Si è sempre fatto così!” è l’atteggiamento che sovente troviamo in risposta alla necessità di cambiare qualche elemento. Una sorta di chiusura nata non tanto dall’ottusità verso il cambiamento quanto piuttosto dalla necessità, in un mondo liquido come il nostro, di trovare qualche punto fermo. E visto che lavoro, welfare state ed altre granitiche certezze delle generazioni precedenti si sono sgretolate, si cerca stabilità proprio attraverso le tradizioni.

Questo articolo ha ricevuto una menzione d’onore alla X edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura

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