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Il Diavolo Rosso: Giovanni Gerbi tra cronache sportive, memorie familiari e mito – di Francesca Mogavero

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Giovanni Gerbi tra cronache sportive, memorie familiari e mito

di Francesca Mogavero

Diavolo Rosso dimentica la strada
Vieni qui con noi a bere un’aranciata
Contro luce tutto il tempo se ne va

È un invito, quello di Paolo Conte, che Giovanni Gerbi non ha colto.
Lui, il diau di Borgata Trinceri, aveva ben altro per la testa: non una pausa, non una bibita fresca, soltanto una pedalata dopo l’altra, controluce e controvento, nella calura e nel fango.
A voler dare ragione alla locuzione nomen omen, che avesse un carattere difficile era scritto già nel cognome: attestato nell’Astigiano già in epoca medievale, come riporta Giancarlo Libert nella sua approfondita ricerca, Gerbi deriverebbe da gerbo, “un terreno simile a brughiera, incolto”. E così era il nostro: privo di fronzoli, con le sue spalle larghe e il collo forte, cocciuto e portato tanto alla furia quanto al pianto a seconda dell’occasione.
Nato all’alba del 4 giugno 1885 alle porte di Asti, era noto fin da bambino per le sue “brigantate”: sempre scalzo, prepotente con i compagni di scuola, discolo in famiglia, poi i litigi con i primi datori di lavoro – pare che, assunto da pochi giorni in una sartoria, avesse scagliato un ferro da stiro contro il principale o un collega, le dicerie sono discordanti… Comunque non andò meglio dallo scalpellino, dal muratore, dall’oste, dal contadino, dal conciatore o dal salumaio. Poi, attorno ai quindici anni, la svolta: la bicicletta – o “biciclina”, come la chiamava lui. Dopo un po’ di pratica sulla piazza del mercato, le corse senza freni per sfuggire alle ire paterne (“Dame nen!” urlava per strada) e il serio investimento di un’anziana malauguratamente capitata sulla sua traiettoria, entrò a bottega da un armaiolo meccanico e, tra una riparazione e l’altra, nacque una passione.
Il resto è storia ciclistica nota: le prime gare all’insaputa dei genitori, i distacchi abissali – una volta arrivòal traguardo mezz’ora prima degli altri, e lo striscione non eraancora stato piazzato – le cadute, gli incidenti, gli stratagemmi veri e presunti che lo avrebbero portato, dopo il 2° Giro di Lombardia, a due anni di squalifica. La ragione? Chiodi gettati sulla strada per rallentare gli avversari e un casellante compiacente che, pare, chiuse il passaggio a livello alle spalle di Gerbi, regalandogli un enorme vantaggio.
Sono dati raccolti nelle vecchie cronache sportive e sui libri – è del 1909, quando il Diavolo era ancora in piena attività, il volume dell’Ufficio di Pubblicità Sportiva sponsorizzato da una nota marca (“La sua nomea, le sue vittorie Gerbi le deve alla Bicicletta Bianchi” si legge sul frontespizio).
Ciò che invece vorremmo indagare in questa sede è più ambizioso e affonda le radici nel mito: perché Gerbi, in seguito superato da professionisti del calibro di Coppi e Girardengo, ha lasciato un ricordo indelebile nella nostra regione e negli appassionati di ciclismo, tanto che alcuni cimeli sono conservati al Museo dei Campionissimi di Novi Ligure?
Campionissimo – il primo, a detta di Brera – il Diavolo Rosso era considerato già dai contemporanei, altrimenti non si spiega perché quel biennio di squalifica sopracitato sia stato ridotto a sei mesi grazie ai comitati di tifosi (e agli incendi appiccati ai giornali!) nati in difesa del beniamino astigiano. E come giustificare, sennò, l’aneddoto per cui, al grido di “Musica!” del Gerbi, durante una gara particolarmente spossante, il pubblico abbia risposto portando sulla pista un pianoforte e attaccato a suonare una fanfara. Da dove arriva tanto carisma? Che ci sia davvero lo zampino (caprino) del Signore degli inferi?
Indubbiamente fu il primo ad affrontare le gare in modo sistematico: allenamenti durissimi (Liguria-Piemonte andata e ritorno, una pedalata dopo l’altra, cronometrandosi), senza preparatori atletici, capelli rasati, magliette di seta, massaggi con l’alcool; sempre a lui si deve l’introduzione di due elementi che diventeranno imprescindibili: i tubolari e il sopralluogo pre-competizione – sana abitudine che gli fece scoprire, a Lodi per il 1° Giro di Lombardia, la presenza di rotaie sulla pista… di cui si servì il giorno dopo ai danni degli avversari.
Ma non è soltanto questione di metodo. Ieri e oggi, Gerbi è ricordato con un affetto che va al di là del suo pur innegabile valore sportivo. Ne abbiamo parlato con Marco di “Paramanubrio”, blog e museo diffuso di biciclette d’epoca (hanno anche un’officina dedicata): Gerbi è ricordato per i suoi successi e l’irruenza, e le sue bici, specialmente le rosse da corsa, sono tuttora ricercate e apprezzate.
E abbiamo incontrato chi ha conosciuto il Diavolo di persona: l’attore, autore e regista teatrale Giorgio Boccassi, nipote del fratello di Giovanni Gerbi. Il prozio sorrideva poco, e poco si parlava di lui in famiglia, eppure quell’uomo, noto per la sua irascibilità, regalò al nostro testimone un tricliclo della sua ditta, pronunciando una frase poetica e titanica: “Pedala, Giorgio, pedala, ché arrivi in paradiso anche senza le ali!”.
La scoperta della storia, delle vittorie e della leggenda è successiva: in età adulta Boccassi consulta fonti storiche, si confronta con Paola, figlia del Diavolo, e con suo figlio Giangerbi, e raccoglie nuovi dati e nuove storie, come l’episodio della Corsa Nazionale, nella quale Gerbi arrivò al traguardo venti minuti prima degli altri, pur essendo caduto a Moncalieri e ad Asti e avendo riportato una preoccupante ferita alla testa; oppure la svolta sbagliata che, nella Bologna-Roma, lo portò in Toscana… più precisamente in una taverna, dalla quale fuggì senza pagare il conto.

Un momento dello spettacolo di Boccassi

La ricerca di Boccassi ha dato vita allo spettacolo teatrale Diavolo Rosso della compagnia “Coltelleria Einstein”, nel quale il diau è rappresentato da una ruota rossa in perenne movimento: l’infanzia, i successi, ma anche spunti comici che divertono il pubblico e lo esortano a condividere memorie (“Io portavo la maglietta di Gerbi!”), così la quarta parete cade e il copione si amplia e diviene dialogo vero.
Giovanni Gerbi compare nell’album di famiglia: nella foto del matrimonio dei genitori di Giorgio è elegante e altero sullo sfondo, come una presenza vicina e distante, un compagno di gara irraggiungibile. Eppure il Diavolo era un eroe delle folle: nel Giro di Francia restò con la bici a pezzi, i tifosi gliene comprarono un’altra, gliela rubarono e gliene comprarono un’altra ancora; aveva collaboratori ovunque, gente che si travestiva da vigile per sviare gli altri ciclisti. Temuto e maledetto dagli avversari, alla sua morte venne pianto da Cuniolo, “the terrible”, l’antagonista di sempre che morì sei mesi dopo di lui, nel 1955. Correre da soli, senza il respiro del Diavolo sul collo, anche quando ormai ci si era ritirati dalle competizioni, non aveva sapore.
Selvatico e riflessivo (“Pedalavo e pensavo”), epico e terreno, Gerbi ha infiammato il popolo e salvato la bicicletta quando l’automobile iniziava la sua ascesa. Un innovatore, un pioniere, un paladino che parlava schietto, che eccelleva e si faceva capire, e che quando saliva sul podio, o cadeva e si rialzava, portava sulle spalle non solo i metri della gara, ma tutta la sua terra, spartendo l’odissea con i compaesani. Forse qualche ciclista è montato per la prima volta sul sellino pensando a lui, forse non è un caso che lo zio di Boccassi, fratello di sua madre, partigiano morto a 19 anni nel 1945, abbia scelto proprio Diau come nome di battaglia.
Non so se siamo risaliti fino alle sorgenti del mito, se abbiamo dato una risposta certa ed esaustiva alle nostre domande. Magari no, ma anche questo fa parte del mistero e del fascino del Diavolo: destare meraviglia negli astanti, mentre sparisce in una nuvola di polvere verso nuovi traguardi… senza avere il tempo nemmeno per un’aranciata.

Questo articolo ha vinto il secondo premio alla XII edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura

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