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Chi ha varcato la soglia – Testimonianze 10, 11, 12

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VITE PARALLELE
racconti e testimonianze di
CHI HA VARCATO LA SOGLIA

testimonianza n° 10 
RIFLESSIONI DI UN ÈX RAGAZZO 
CHE HA VARCATO LA SÒGLIA SIN DA ADOLESCÈNTE
di ANÒNIMO – P.S.  – detenuto

Dopo avér trascorso quasi 30 lunghi anni della mìa vita tra càrcere minorile, case circondariali e case penali, pènso, dall’alto (o dal basso) della mìa esperiènza, di potér dire la mìa.
Il motivo che mi ha fatto varcare la sòglia la prima vòlta è da attribuìre al solo fatto che, crescèndo in mèzzo alla strada, ho cominciato a desiderare le còse che un adolescènte pòvero e privo di punti di riferimento può volere in più.
Quasi inevitàbile il destino di finire in càrcere.
Non sono però un vittimista, uno di quelli che pènsano che la colpa sìa sèmpre degli altri.
Il càrcere mi ha tòlto e mi ha dato. Va da sé che nel lungo perìodo trascorso nelle varie galère, ho potuto assìstere ai meccanismi del sistèma e vìvere in prima persona la vita carceraria.
Banalmente pòsso affermare che in càrcere tròvi tanta povertà, ignoranza, e soprattutto tanta violènza, che a mìo avviso è dettata da una forma di cultura e di difesa.
Pòsso anche assicurare che nel mìo lungo percorso dentro le mura ho trovato molte persone sensìbili che dèdicano il loro tèmpo ai reclusi, che vanno dai criminòlogi e psicòlogi, educatori, volontari, ma soprattutto docènti. L’univèrso carcerario è composto però anche di persone a cùi dei reclusi non impòrta nulla: queste persone pòssono èssere acculturate o ignoranti, ma si sènte che non hanno umanità e quindi a noi non pòssono insegnare nulla con l’esèmpio, ma solo scatenarci dentro i sentimenti più negativi come rabbia, rancore, in cèrti casi òdio.
Da parte mìa ho intrapreso un percorso di istruzione nelle varie istituzioni e con grande interèsse ho studiato (con pèssimi voti…), recitato nei vari teatri e credo che tutto ciò mi abbia insegnato la tolleranza vèrso il pròssimo.
Un bèl giorno, avvertèndo che respiravo male, vado in vìsita mèdica: come sèmpre, paracetamòlo e cortisone.
Dopo vari cicli di medicine, un mèdico del càrcere decide di farmi fare una tac.
Èsito funèsto: un problèma classificato “eteroplàstico”, più semplicemente adenocarcinòma.
Con le lungàggini del càrcere e del magistrato di sorveglianza, il tumore intanto da 17mm passa a 47mm.
Trascórrono altri dùe anni con la spiacévole sensazione di avere una bestia che ti cresce dentro mentre tu non hai diritto alla cura: metàstasi e linfonòdi.
Quando apprèndo con certezza che il mìo problèma di salute è di quelli sèri, il mìo umore ha un colpo psicològico: sono pièno di ansia e di incertezze per vìa che in càrcere – con i tèmpi lunghìssimi e la burocrazìa carceraria che va dal magistrato di sorveglianza al DAP, di nuòvo al càrcere e infine al dirigènte sanitario – sarà difficilìssimo venirne a capo.
Dèvo pur aggrapparmi alla vita e, per vìa del mìo caràttere, sènto di dovér lottare e di non lasciarmi andare. L’ansia però divènta ogni giorno più opprimènte e per distrarmi da essa inizio a frequentare i corsi di biodinàmica, teatro, educazione fìsica offèrti dalla scuòla, ma per vìa dei tèmpi lunghìssimi il mìo problèma va aggravàndosi.
Nella mìa tèsta so che non dèvo cèdere all’ansia o al rancore: non dèvono sopraffarmi e mi impongo di fare tutte le còse di cùi sopra, anche se la mìa situazione fìsica è sempre più débole.
Finalmente, dopo un mìo esposto alla procura e martellamento di mìa moglie all’estèrno del càrcere, mi ricóverano alle Molinette per il primo ciclo di chemioterapìa.
Mi sospèndono la pena e vèngo scarcerato, pòi mi danno i domiciliari: affronto dùe intervènti e tèrmino vari cicli di chèmio e radio.
Òggi continuo con una terapìa antitumorale.
Ora c’è il coronavirus, molti detenuti hanno paùra, ma ìo mi permetto di dire loro di non arrèndersi mai e di lottare. Ìo non sono guarito, ma sono vivo e vègeto e sto abbastanza bène. I problèmi più urgènti ora sono altri: sulla sòglia dei 60 anni, mi tròvo ancora ancorato a problèmi di giustizia. Prèndo 290 èuro di pensione di invalidità e i problèmi econòmici pésano anche all’intèrno delle mura domèstiche.
Condivido il pensièro di Dostoevskij,  cioè che la civiltà di un paese si misura con lo stato delle càrceri. Qualcuno potrà obiettare sul fatto che sono di parte: è vero, non lo biàsimo, ma dalla mìa di parte ci sono 30 anni di branda.
In bocca al lupo a noi tutti!

testimonianza n° 11 
FINALMENTE LIBERO
di Raul Bucciarelli – medico

Era il 1995 ed ero davvero  ancora agli inizi della mia professione di medico. Il lavoro di sanitario presso una struttura carceraria durò un paio di anni. Un periodo breve, ma che mi ha insegnato molte cose. Lui lo ricordo ancora molto bene, anche dopo venticinque anni, fra i tanti volti passati, visti e rivisti tante volte da dietro l’austera scrivania della infermeria della Casa Circondariale di B. Quella scrivania era divisa dalla libertà da otto solerti porte automatiche e centocinquanta passi. Lui era alto e magro, con una barbetta brizzolata ruvida e rada, gli occhi vivissimi e guizzanti, i capelli incolti e lunghi….. Il suo volto scavato raccontava con trasparenza un infinito dolore e rassegnazione. Il cognome declinava con certezza le sue origini siciliane. Il suo dialetto inconfondibile e schietto raccontava sicuramente Palermo. Lui era  uno dei tanti detenuti che al mattino faceva la fila nell’ambulatorio del carcere. Non ho mai voluto sapere, naturalmente,  perchè fosse finito in un penitenziario. E alla fine non l’ho mai saputo.  Questo era per me un principio fondamentale ed imprescindibile  per poter esercitare con serenità  il lavoro di medico in un posto non facile come quello. Ogni tanto gli agenti di custodia mi raccontavano  qualche cosa sul passato dei miei pazienti, ma io cercavo di  glissare sempre. I miei pazienti erano solo dei malati. Lui era un paziente abituale, e passava in infermeria abbastanza spesso. Si sedeva appoggiando il gomito destro sulla scrivania, mi guardava fisso negli occhi e mi ripeteva: “Dottore, non mi funziona bene il cervello”. Lo diceva con tono accorato e anche un po’ teatrale con gli occhi rivolti verso il cielo, quasi a cercare una sorta di benedizione o qualto meno di approvazione divina. Gli chiedevo di spiegarmi bene, ma non c’era molto da dire…. si prendeva la testa fra le mani e mi diceva: “Il cervello dottore…. il cervello”. La sua cartella clinica raccontava innumerevoli valutazioni psichiatriche con variopinte diagnosi: “Stato depressivo”, “Note di delirio persecutorio”, “Disturbo schizotipico di personalità”…. Nessuna di queste definizioni raccontava chi era…. Lui si recava in infermeria più per chiacchierare o per chiedere di aumentare il dosaggio già altissimo degli psicofarmaci per alleviare chissà quale disagio profondo.
Gli agenti di custodia lo consideravano un tipo bizzarro ma nella sostanza non particolarmente pericoloso…. Un mattina però arrivò più agitato del solito e finalmente riuscì a dirmi qualcosa di più.
Era molto preoccupato, perchè tra qualche giorno avrebbe concluso la detenzione e come si suole dire: “si sarebbero aperte le porte del carcere”. Con la testa tra le mani continuava a ripetermi: “Dottore adesso dove andrò? Non ho nessuno che mi aspetta…dovrò tornare a Torino…”
Non avevo mai riflettuto su una situazione del genere. Non si pensa mai che per molti esseri umani il carcere rappresenta una sorta di casa. Fuori mancano spesso affetti, amicizie, legami familiari. Molti hanno la residenza nell’istituto di pena e non sanno neanche dove dormire. Fuori manca il  lavoro, non si è più nessuno. Il carcere per molti rappresenta una sorta di identità e il dopo è solo insicurezza.
Ho avuto un colloquio non facile. Cosa si può dire oltre qualche ovvietà? La direzione da me interpellata mi ha assicurato che sarebbe stato in qualche modo comunque affidato ai servizi sociali di Torino. 
Dopo tre giorni è uscito. Mi hanno detto che aveva uno scatolone legato col cordino e un sacco nero dell’immondizia con tutte le sue cose. Aspettava l’autobus per la stazione. Finalmente libero.

testimonianza n° 12 
IO SON COLUI CHE TENNI
di Mariella C. – insegnante

Sono un’insegnante di Lettere in pensione e la prima volta in cui ho varcato quella soglia è stato in una luminosa mattina di luglio di alcuni anni fa, quando sono entrata in una Casa di reclusione come docente volontaria di un progetto di scuola estiva della sezione carceraria di un Istituto di Istruzione Superiore di quella città. Di soglie nella mia vita ne avevo varcate altre: con il passare degli anni l’esperienza e la riflessione ci portano a mettere in crisi presunte sicurezze e a fare un salto oltre, superando ingiustificate paure e pregiudizi, per regalarci poi spazi inaspettati e fino ad allora inesplorati di conoscenza, comprensione e libertà. Ma queste sono soglie metaforiche, quella invece era ed è davvero una soglia, un limite che concretamente delinea due spazi ben divisi: il fuori, che mi lasciavo alle spalle, e il dentro, in cui un po’ alla volta entravo, attraverso controlli, lunghi corridoi, porte pesanti che venivano aperte e poi richiuse, il tintinnio dei mazzi di quelle grosse chiavi (ben presenti a chi frequenta un carcere), che nella loro silenziosa  unicità trasmettono un messaggio inquietante: mai come in questo luogo si ha la percezione di come esse siano davvero simbolo di apertura e chiusura, il che contestualizzato significa libertà e reclusione.
Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando,.. ( canto XIII Inferno).  Serrare e diserrare non solo gli spazi, ma il cuore altrui – dice Dante. Aprire il cuore e la mente sono, per chi si inoltra in una realtà e in una comunità umana di cui si ha conoscenza soltanto attraverso le cronache e i luoghi comuni, prerequisiti per capire e mettersi in relazione. Non so se ne ero allora così consapevole,  avevo accettato di entrare come insegnante volontaria in carcere sia perché ero curiosa, in senso positivo, di conoscere quell’ambiente e le persone che lì vivono, sia perché ho sempre amato la scuola e l’insegnamento. Mi intrigava poi la prospettiva di insegnare a degli adulti, esperienza che non avevo mai fatto.
Ero emozionata e anche un po’ impaurita, perché nasconderlo? Quando l’agente che mi aveva accompagnata chiuse a chiave la porta dell’aula e mi trovai sola con un buon numero di persone detenute in una sezione di Alta Sicurezza, in un attimo mi  immaginai sequestrata e usata come ostaggio! Niente di tutto questo successe, tutto procedette serenamente e fin dall’inizio io mi sentii a mio agio ed accolta: la lezione che avevo pensato e preparato (lessi loro una novella di Pirandello) fu motivo di scambio e di un vivace confronto.
Da allora (era il 2014) ho continuato ad essere presente nella scuola, ho conosciuto molti detenuti e contribuito alla preparazione di alcuni per l’esame di maturità, ho partecipato a progetti di incontro con scrittori, ho visto le pareti degli ambienti scolastici diventare pitture bellissime grazie all’impegno e alla professionalità dei docenti e al fattivo coinvolgimento degli studenti, in breve ho constatato di persona  l’importanza della scuola nei processi di formazione e di crescita personale.
Non sono una buonista, non sono andata lì pensando di fare un’opera di misericordia a dei disgraziati cui portare una salvezza non richiesta, ci sono andata mantenendo le mie convinzioni (aderisco ai principi e alle iniziative di Libera) e ponendomi in una posizione di rispetto, che è stato reciproco, e di autenticità, mantenendo il mio ruolo senza autoreferenzialità e non nascondendo mai le mie idee anche quando erano in contrasto con quelle di qualcuno. La letteratura, tema dei nostri incontri, offre la possibilità di confrontarci sull’idea che abbiamo della vita e del mondo, ci apre spazi di conoscenza, ci fa riconoscere  emozioni e sentimenti, ci interpella su ciò che è  bene e ciò che è male, ci chiarisce a noi stessi:  in sintesi ci mette di fronte alla complessità dell’animo umano. Ed è quello che ho sperimentato in questi anni di frequentazione del carcere, cioè che le persone non si esauriscono in un gesto o in un atto che hanno compiuto (senza peraltro sottovalutarne il peso e la gravità), ma sono questo e tanto altro, e che la scuola e ogni attività formativa offrono strumenti  per scoprire o riscoprire aspetti nuovi di se  stessi e per porsi in un cammino di ricerca e di consapevolezza. Le persone che ho incontrato sono  diverse fra loro, con alcuni è stato più facile intendersi, con altri meno, ma questo succede normalmente nelle nostre relazioni; la diversità di idee e anche i conflitti possono essere importanti opportunità educative, se condotti e gestiti nel rispetto reciproco.  Se continuo a varcare la soglia e mantengo rapporti epistolari con alcuni detenuti trasferiti in altre carceri,  è perché oltre quella soglia ho intrecciato relazioni significative: è stato per me un percorso arricchente.

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