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Chi ha varcato la soglia – Testimonianze 6, 7, 8

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VITE PARALLELE
racconti e testimonianze di
CHI HA VARCATO LA SOGLIA

testimonianza n°6
LETTERA DI UNA MOGLIE  
di Anna G. – moglie di un detenuto

Ciao amore mio,
che disperazione venire a trovarti e saperti lì dentro. L’avevi descritto bene, il carcere. ho fatto due ore di treno, poi mezz’ora di pullman e sono scesa sulla statale deserta, accanto alla tangenziale dove passano i tir. Che squallore, vedere scritto il nome della fermata alla pensilina dell’autobus, carceri. È un nome duro da sopportare e da mandare giù.
Quello che mi ha colpita di più, è stato l’odore del carcere rispetto all’aria gelida e pulita di fuori. Un odore forte, di metallo e di umanità compressa, anche se ieri era un giorno di visita in cui non c’era quasi nessuno. È stata dura essere perquisita. E la poliziotta non era neanche poi così gentile. È una grande tristezza, essere qui, le ho mormorato mentre mi metteva le mani addosso. Poi mi ha anche fatto aprire la bocca e ha indagato sopra e sotto la lingua. ho dei brutti denti, lo so, ho detto, non è colpa mia. E mi vergognavo senza motivo di vergognarmi. Solo per il fatto di essere lì.
Poi mi hanno dato un foglio con un numero, che era il numero del tavolo al quale avremmo potuto parlare. Era un grande otto disegnato, e ho pensato tra me e me, il numero dell’infinito, com’è infinito il mio desiderio di vederlo, e la mia sete di lui. Poi abbiamo attraversato cortili e porte blindate con i vetri antiproiettile, e finalmente hanno aperto la porta di ferro pesante con una chiave che faceva rumore, e ti ho visto, di là del vetro, il tuo viso da ragazzino. Il tuo sorriso. Per me.
Dimmelo, forse tu lo sai? Che senso ha il carcere? Privare una persona della libertà e basta, non fare niente per lei, non coltivarla come una pianta cresciuta storta cui si mette un’asticella per raddrizzarla. Siete chiusi lì dentro, stipati come bestiame cui non si dà una seconda, o una terza, o una quarta possibilità. Siete esseri umani, cazzo, esseri umani.
Una delle cose che mi ha lasciata con il fiato sospeso è stata la somiglianza dei detenuti con i secondini. Man mano che si aprono le porte, e si attraversano i cortili, il filo che vi unisce e nello stesso tempo vi separa dai vostri carcerieri si assottiglia sempre più. Che tristezza. Anche loro erano uomini, ma ora forse non lo sono più.
Durante il colloquio ti ho chiesto se nel carcere ci sono dei corsi di studio per i detenuti. Mi hai detto che no, a parte, forse, un corso di computer che tu non te la sei sentita di fare. E poi hai aggiunto, I corsi sono per quelli che hanno tanti anni da scontare…
E che differenza fa? Perché ti hanno dato solo un anno tu dovresti uscire senza essere migliore? Ma quale logica perversa è questa, non so capacitarmene. Lo sanno tutti che la situazione dei detenuti in questo paese è drammatica, ma ieri, ieri! Vederti così pallido, come davvero un viso che non vede mai la luce.
Abbiamo parlato tanto, ogni tanto appoggiavo il viso sulle tue mani, le tue mani piccole, da bambino. Mani che non sono mai cresciute. Le tue mani, che tanti direbbero sporche, ma che per me sono le tue. Non tenerle chiuse, schiudile al sole e lascia che il cielo le purifichi di luce e di consapevolezza. Le tue mani. Ti guardavo, ti indagavo gli occhi, come per entrarci dentro. Le due ore di colloquio sono passate in fretta, sono volate via. Poi mi sono ritrovata al sole rancido dell’inverno, sulla statale. È stato bellissimo vederti. Ma quando ti ho lasciato, lo sapevo. Ti stavo lasciando sulla porta dell’inferno. E la pena più grande è non dividere il suo fuoco tremendo con te.
A presto.

testimonianza n°7
LO SGABELLO
di Emilio Toscani – detenuto

Ciao. Sono uno sgabello. Di legno. 
Come quello che ogni detenuto ha in dotazione nelle carceri. 
Adesso sono un pezzo di legno morto, ma una volta facevo parte di un bellissimo larice. 
Ero il terzo ramo a destra, partendo dal basso. 
Poi, all’improvviso, un fulmine ha bruciato il mio larice e lo scheletro annerito è stato portato in segheria. 
Così sono diventato sgabello. 
Sapeste quanti dei miei compagni si sono seduti su di me. 
ho visto gente ridere, piangere, vivere, sopra di me. 
Tutti i sentimenti e i pensieri possibili e immaginabili dell’umanità si sono seduti sopra di me. 
Ne avrei cose da raccontare. 
Sono stato coinvolto anche in un paio di risse, usato come arma, riportando anche lievi ferite. 
Se sapeste, di quanti segreti, frammenti di vita, confessioni, gioie e dolori, sono stato testimone. 
Poi, a febbraio, a Civitavecchia, il dramma. 
Ero in una cella appartenuta a un povero vecchio finito in galera per resistenza a pubblico ufficiale, avendo un pochino alzato il gomito per dimenticare i suoi dolori. 
Un giorno gli portarono in cella un indiano, mezzo matto.
Il vecchio avvertì le guardie che era pericoloso stare con un matto, ma non ottenne alcuna reazione.
Di notte, senza motivo, l’indiano mi brandì, mi fece volteggiare nell’aria e mi calò sull’inerme testa del vecchio. Non solo una volta, ma insistette, a più riprese. 
Poco dopo il vecchio era morto e io ero aperto in due, in frammenti inservibili. 
Adesso sono nella raccolta differenziata e verrò presto bruciato. 
Certo che ero proprio un bel larice.

testimonianza n°8
QUELLO CHE PESA
di Bruna Chiotti – Garante dei diritti dei detenuti

ho varcato la soglia di un carcere alcuni anni fa come volontaria di una Associazione per gestire uno sportello sociale per pratiche pensioni, disoccupazioni, ecc. e poi come Garante Comunale per i diritti dei detenuti per 5 anni.
ho incontrato una umanità dolente, rassegnata, arrabbiata, fiduciosa, incattivita, altruista, impaurita, silenziosa, allegra, speranzosa, creativa, in altre parole ho incontrato “l’uomo” in tutte le sue debolezze, ma con una grande volontà di riscatto.
ho visto piangere un anziano detenuto al quale venivano negate ogni possibilità di far valere i propri diritti. ho incontrato persone con 20-30 anni di carcere sulle spalle e con fine pena “mai”, ma ancora con la speranza di vedere la propria casa e di tornare liberi.
Mi è rimasta impressa la storia, tra tante, di un detenuto condannato all’ergastolo ed entrato in carcere a 20 anni. Mi raccontava che conosceva solo il quartiere dove era nato e cresciuto e che tra bande rivali sopravviveva chi sparava per primo. Mi disse che il carcere l’aveva salvato ed era riconoscente alla scuola interna che gli aveva permesso di studiare.
ho incontrato un capo mafia già anziano e con oltre 30 anni di pena scontata che si è laureato in carcere in Sociologia e che, nei giorni di permesso, svolgeva volontariato in una struttura per anziani.
ho conosciuto un detenuto che negli anni ottanta faceva parte delle “Brigate Rosse” a tempo pieno, e prima ancora fu rapinatore e gangster. Non ha mai rinnegato le sue scelte  sbagliate, anche se era molto critico verso se stesso al punto di scrivere  un libro sulla sua cattiva strada. Ora lavora in una cooperativa sociale come volontario e continua a scrivere le sue memorie.
Nessuno rivendicava  il proprio passato, anzi c’è quasi una rimozione e c’è invece una ferma volontà di guardare avanti senza voltarsi indietro. ho incontrato persone con grande dignità e voglia di
riscatto chiedendo di lavorare perché “il lavoro dà dignità”.
Mi hanno detto che gli anni passano, ma la giornata è lunga e il senso di solitudine e la nostalgia della famiglia è devastante. Per sopravvivere è indispensabile mantenere il rispetto di sé e la propria dignità di uomo anche se dentro pesa una fragilità nascosta, mascherata da atteggiamenti anche aggressivi o con ostentata sicurezza di sé.
Ma quello che pesa per un detenuto è l’indifferenza di chiunque non varca la soglia del carcere, perché un saluto, una stretta di mano, un colloquio possono dare senso alla giornata,  a quel tempo infinito che isola fisicamente e socialmente e che distrugge psicologicamente una persona, anche colpevole di reato, ma pur sempre una persona.

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