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Stelle nel deserto – di Gabriella Bernardi

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Ad Atacama non c’è nulla, neppure l’inquinamento. Il luogo ideale per un osservatorio astronomico

di Gabriella Bernardi

 
Si parla spesso di riscaldamento globale e dell’aumento del biossido di carbonio, ma l’inquinamento può essere anche di tipo luminoso. Provate a domandarlo agli astrofili o a chi studia le stelle, vi diranno che le luci delle città o le illuminazioni stradali non aiutano affatto ad osservare le stelle, l’effetto sarebbe come aver continuamente negli occhi la luce di un faro e tentare di scorgere luci  deboli e lontane di una nave al largo. L’Osservatorio bernardi-1Astronomico di Torino, nato sui tetti di via Po, poi spostato a Palazzo Madama per poi trovare la sua sede attuale nel 1911 sulla collina torinese, fece già in anticipo questa scelta pionieristica per trovarsi lontano dal disturbo cittadino, ma da anni non è più sufficiente. Per questo l’Eso, l’ente astronomico europeo, circa quarant’anni fa decise di trovare un luogo opportuno per installare moderni telescopi. Così, gli astronomi che fanno domanda per ottenere il “tempo osservativo” per le loro ricerche se ricevono l’autorizzazione si preparano a raggiungere un altro continente e vanno in Cile, nel deserto dell’Atacama. È uno dei luoghi più aridi della Terra, non vi cresce un filo d’erba, né un cactus e non c’è anima viva. Non vola nemmeno un moscerino. Il cuore di questo deserto è definito dai climatologi un “deserto assoluto”. In alcune zone le precipitazioni medie non superano i tre millimetri all’anno, mentre in altre non è mai caduta una goccia di pioggia. Il motivo? Le montagne che lo delimitano, da un lato la cordigliera della Costa e dall’altro le Ande, impediscono all’umidità di passare. Nella parte più arida le condizioni sono così estreme che gli scienziati vi hanno persino testato le strumentazioni per la ricerca di elementari forme di vita su Marte. Una curiosità: la regione dà il suo nome a un minerale, l’atacamite, di colore verde smeraldo, ed è il deposito più ricco al mondo di nitrato di sodio, usato come ingrediente per la preparazione di esplosivi, ma anche come fertilizzante. 

A La Silla, la prima sede degli osservatori astronomici dell’Eso, si trovano i più moderni ed avanzati telescopi al mondo, sotto cieli privi di inquinamento luminoso. La si raggiunge dopo un breve volo dalla capitale Santiago, e due ore di pullman. Arrivati a destinazione, a 2400 metri di altitudine, si contano una quindicina di cupole dalle varie dimensioni, funghi bianchi che contrastano col rossiccio del deserto e l’azzurro del cielo. Sono sul crinale di una collina, o meglio di una sella, come indica il nome cileno; mi piace immaginarli come occhi dormienti, riparati di giorno nelle loro specole in attesa del tramonto per entrare in attività. I più grandi hanno specchi di circa tre metri di diametro  e sono ormai comandati a distanza in un’apposita sala di controllo, mentre alcuni, decisamente più piccoli, sotto il metro di diametro possono addirittura essere governati dall’altra parte dell’oceano, come è il caso di un telescopio svizzero completamente robotizzato.
Il panorama tutt’intorno è un susseguirsi di colline e controcolline, alcune rossicce, altre quasi rosate, altre marroncine. Alcune sono percorse da strade o sentieri sterrati e di notte si intravedono  luci lontane, che non sono quelle di una città o centri abitati, ma di miniere in attività. Su un altro crinale si intravedono altre cupole, ne conto almeno quattro: fanno parte di un altro osservatorio chiamato Las Campanas, dove immagino che la vita sia simile a quella che si svolge a La Silla. 
Una tipica nottata da astronomo inizia intorno alle 16-17 quando si passa nella sala di controllo dei tre telescopi principali dove il personale tecnico diurno che effettua i controlli di routine; poi, in base alle esigenze del programma osservativo, si richiedono operazioni specifiche. Se tutto fila liscio e senza problemi un’ora passa così e poi si può prendere un tè o riposarsi nelle silenziossime camere assegnate. Cena alle 19 e alle 20, nel mese di dicembre, che in Cile è estivo, si inizia la notte. Il tecnico assegnato è responsabile dell’apertura a distanza della cupola e di tutti i puntamenti. Mentre si completano le operazioni preliminari, si può ammirare un fantastico tramonto dalle ampie vetrate, poi tutto viene chiuso da tende bianche, per non distrarsi dal lungo lavoro che sta per iniziare. Le casse audio trasmettono anche il movimento del telescopio quando riceve il comando di puntamento. In una sala poco distante si possono preparare bevande calde o prendere dei biscotti, la notte è lunga, ma durante le pose più lunghe, con una torcia si raggiunge la mensa, sempre aperta. Con la luna piena la torcia non serve perché la sua luminosità rende sorprendentemente chiaro il paesaggio. Orientarsi in cielo invece non è così semplice, ci si trova smarriti perché siamo nell’emisfero sud, la stella polare non arriva in soccorso ad indicarci il nord, qui c’è la Croce del Sud. L’inconfondibile costellazione di Orione dei cieli invernali è capovolta, la Via Lattea è luminosissima e le nubi di Magellano, le due galassie irregolari, invisibili a casa nostra, sono maestose e si capisce bene perché le abbiano chiamate così. Intorno alle 6 del mattino inizia ad albeggiare, si terminano gli ultimi puntamenti e si concordano con il tecnico le operazioni finali che termineranno direttamente con un giro in jeep tra le 

cupole. Non ci resta che raggiungere i dormitori quando il sole non è ancora sorto e le nuvole o nebbie lambiscono le colline e sembra che l’oceano sia avanzato durante la notte. In un silenzio che pare irreale si dorme fino alle 16 per poi iniziare un’altra nottata, sperando che il tempo sia buono, non ci sia troppo vento o l’umidità non sia troppo alta, altrimenti le cupole vengono chiuse. Se tra le notti osservative si hanno degli intervalli di riposo, oltre a visitare direttamente i telescopi più grandi si possono fare due passi nel deserto. Che non ci sia anima viva non è del tutto vero, anche perché la sede non si trova proprio all’interno del deserto, ma vicino al suo confine; si scopre che nella zona dell’osservatorio sono presenti tracce di vigogne e di muli non  selvatici, come si evince dai ferri che a volte perdono. In cielo ho visto volteggiare dei condor, una volpe si aggirava nei pressi della mensa e poi ci sono le viscachas, timidissimi animaletti che si mimetizzano nelle pietraie e assomigliano ai leprotti delle nostre campagne. Forse è un inizio di nostalgia, è ora di tornare a casa.

 

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