A Ivrea ogni anno si rinnova la tradizione che attrae turisti da tutto il mondo
di Matteo Aglio
Violetta è la giovane e bella figlia di un mugnaio innamorata di un suo coetaneo, Toniotto, con cui convola felicemente a nozze. Ma la ragazza, benché di umili origini, non passa inosservata a Guglielmo VIII, marchese del Monferrato, che nel XII secolo regna su Ivrea. Allora il feudatario, lo stesso giorno del matrimonio, fa rapire e portare al proprio castello Violetta per reclamare lo jus primae noctis che gli spetta in quanto feudatario di quelle terre. La fanciulla, per nulla irretita dal nobile, finge dapprima di assecondarlo ma, arrivato il momento, sfila il pugnale nascosto sotto le vesti e decapita il tiranno, la cui testa mozzata mostra dagli spalti del Castellazzo alla folla radunatasi lì sotto.
Il Carnevale di Ivrea è una festa tremendamente seria nel suo svolgimento, fatta di un cerimoniale ben preciso con molteplici personaggi, ognuno con compiti e funzioni ben definiti, ma è la battaglia delle arance ad infiammare la fantasia e la curiosità di chi vi si accosta per la prima volta. Per tre giorni la capitale del Canavese si trasforma in un campo di guerra allegorico, richiamando visitatori da tutta Italia e dall’estero che, protetti dal caratteristico berretto a calza rosso, possono assistere al tiro delle arance.
Sul perché sia questo frutto “esotico” per il Piemonte a essere stato scelto, come sulla nascita di questa tradizione, le teorie sono molte, ma nulla è certo. L’arancia è simbolo da una parte di abbondanza, di fecondità e nell’Ottocento, quando la manifestazione era espressione della borghesia rampante, di opulenza: il suo spreco quindi rientra perfettamente nel rovesciamento messo in scena da tutte le manifestazioni carnascialesche. Mentre per tutto l’anno la gente risparmia, nel Carnevale si butta un frutto caro e prezioso, in un rito celebrativo dell’abbondanza. L’usanza del tiro dei frutti, invece, potrebbe essere fatto risalire al Medioevo: uno storico
I rappresentati del popolo insorto sono rappresentati gli aranceri a piedi divisi in nove squadre, ognuna delle quali veste diversi colori e ha una propria zona di tiro; a partire dalla più vecchia, sono: Asso di picche (fondata nel 1947), Morte, Tuchini, Scacchi, Pantera, Arduini, Diavoli, Mercenari e Credendari. A combatterli gli aranceri sui balconi (ormai scomparsi) e sui carri da getto, divisi in pariglie e quadriglie a seconda del numero di cavalli, gli sgherri del tiranno che portano la battaglia nelle piazze e nelle vie della città.
Al loro arrivo i gruppi a piedi si animano, li accolgono con cori di scherno e di sfida, mentre le mani raccolgono le arance dalle cassette e gli aranceri si preparano alla battaglia. Quando il carro entra finalmente nella zona di tiro, ai canti e alle urla si sostituiscono i tonfi delle arance, scagliate come proiettili. Intorno al carro una nuvola color arancio segna l’inizio delle ostilità, i frutti si schiantano contro le paratie decorate del carro e i corpi degli aranceri, il succo che schizza rosso in aria ricorda il sangue. Per qualche minuto il caos si impossessa della festa, fra risa e grida, mentre il passo lento dei cavalli scandisce i secondi. I tiratori a piedi si accalcano contro le sponde dei carri, e la violenza del tiro rispecchia le rivalità fra la piazza e il carro. I cavalli, impassibili, guidati dalla mano ferma del cavallante, si aprono una strada tra la folla, mentre gli zoccoli si aprono la strada su di un fiume di arance schiacciate. A volte si fermano, il carro sfida gli aranceri a piedi, che intensificano il tiro, si stringono l’uno all’altro facendo valere il loro numero.
Per tre giorni, dalla domenica al martedì, la battaglia si ripete, il popolo insorge ancora una volta contro il tiranno, la battaglia tra il bene e il male prende vita, il terreno diventa un tappeto arancione. Il Carnevale si impadronisce tanto del pubblico che degli aranceri, che non sentono né stanchezza né freddo nell’ebbrezza del tiro. Poi, martedì dopo aver tirato l’ultima arancia, le squadre sfilano compatte per le strade in direzione di Piazza di Città, dove, dal balcone del municipio, sono proclamati le squadre vincitrici, sia a piedi che sui carri.
La battaglia è finita, e anche il Carnevale volge al termine, a segnarne la fine sarà in serata l’abbruciamento degli scarli nelle piazze. Se il palo, avvolto di edera e ginepro, arde con fiamme alte fino alla sua sommità, dove è posta una bandiera, l’annata sarà buona e ricca di matrimoni. Nella piazza del municipio ad assistere all’abbruciamento dello scarlo c’è la Mugnaia, che illuminata dalla luce delle fiamme tiene alta puntata verso il cielo la spada, a monito per i futuri tiranni.
È l’ora dei commiati, mentre una strana malinconia abbraccia i cuori dopo la festa, e non resta che salutarsi con un “Arvëdse a giòbia ‘n bòt” (arrivederci a giovedì all’una).
Questo articolo ha ricevuto una menzione speciale alla IV edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Cultura e Ambiente