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L’orlando furioso – di Michela Damasco

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Una sartoria per ricucire abiti e vite

di Michela Damasco

orlando-furioso-1Sulla lavagna dietro la cassa c’è scritto, col gessetto: Chi lavora con le mani è un operaio. Se al lavoro manuale si unisce l’intelligenza è un artigiano. Se a tutto questo si unisce anche il cuore è un artista.
Non può che esserci cuore, nella sartoria L’Orlando Furioso, nata sette anni fa come progetto di formazione preprofessionale e terapia occupazionale orientato alle utenti dei Centri di Salute mentale dell’Asl TO2. Un sogno di uguaglianza di diritti e opportunità che si è fatto realtà. 
L’idea di partenza, basata sul concetto di “recupero” in maniera allargata, è della cooperativa sociale Altra Mente, che si occupa di disagio sociale con particolare riferimento alle patologie psichiatriche. “Avevamo problemi a inserire le pazienti in contesti lavorativi e così abbiamo pensato al laboratorio sartoriale, a provare con il mestiere dell’ago e filo” spiega Elena Varini, psicologa, consigliera della cooperativa e responsabile del progetto, un largo sorriso, nonostante sia sempre di corsa. Con lei, nel progetto, Elisabetta Torchio, psicoterapeuta, che si occupa più dell’aspetto clinico. Il nome, frutto della fantasia del presidente della cooperativa, ha un significato ben definito: Orlando furioso richiama infatti sia il verbo orlare, sia il concetto di follia.
All’inizio, si è partiti con una sartoria artigianale, dedicata per lo più alle riparazioni, in via Parma. Poi, circa un anno fa, lo spostamento in via Le Chiuse, in un locale ristrutturato, la produzione di una collezione propria e l’apertura al pubblico. Niente è stato lasciato al caso, a partire dalla scelta dei materiali: legno e mattone, infatti, hanno avuto la meglio su plastica e cemento. 
L’ambiente è luminoso e accogliente, una sorta di open space, per cui dall’ingresso, con un colpo d’occhio, ti fai subito un’idea del posto e vedi i rotoloni di stoffa, il largo tavolo dove si disegna, si taglia e si imbastisce, attorno al quale ci sono le macchine per cucire; i capi della collezione primavera-estate sono esposti in vetrina e nell’ingresso, con due camerini, due poltroncine basse e anche un angolo per far giocare i bambini. I sorrisi e la cordialità di chi ci lavora si sposano benissimo con il luogo.
Il laboratorio si avvale dell’apporto di tre stiliste (“Il cui pagamento è simbolico” tiene a precisare Elena Varini) e di cinque sarte. Accanto a lei si siede in quel momento una delle stiliste, Alessandra Orchetti, architetto, bravissima nel lavoro di riutilizzo, che sta dando una mano anche sulla linea: “Ci sono anche stiliste, dice ancora Elena, che si appoggiano a noi per creare le proprie collezioni”. È presente poi un’educatrice che affianca le pazienti: “I posti disponibili per le pazienti sono in tutto dieci”, prosegue la responsabile del progetto.  “Al momento ce ne sono nove: le signore del mattino fruiscono della quota di terapia occupazionale, pari a 300 euro. Vengono qui per imparare, a cominciare dall’abc, dall’uso di ago e filo, per poi passare alla macchina da cucire. Tengono per sé 55 euro della cifra, mentre il resto va alle sarte e al formatore. Ci sono poi due borse lavoro, che possono essere finanziate da enti diversi, dalla Regione, ad esempio, ai privati: in questo caso, la borsa lavoro è interamente per la paziente”.
All’inizio il percorso terapeutico non aveva limiti di tempo, ma, considerando l’elevato numero di richieste arrivate, nel 2010 la cooperativa ha deciso di fissare una scadenza: “Le borse lavoro hanno una durata massima di un anno, mentre i posti di terapia occupazionale, dopo il primo anno, sono rinnovabili di un altro e non oltre. Questo per poter dare al maggior numero di persone la possibilità di partecipare”.
Il lavoro con le pazienti, oltre che sulle tecniche di cucito, è un lavoro sulla relazione, sulle abilità cognitive e, quindi, educativo: “La terapia occupazionale e gli inserimenti lavorativi stanno funzionando. Nonostante un taglio del 20% sulle risorse, il direttore dell’Asl ha deciso di puntare ancora sulla sartoria, il cui progetto è comunque aperto a tutte le aziende sanitarie interessate”. L’obiettivo che si raggiunge, manco a dirlo, è un’autonomia anche fuori, in modo da poter spendere ciò che si è imparato: “Il percorso non è facile: qui arrivano donne che magari non escono di casa da tempo, e già solo salire su un autobus è per loro una difficoltà. Eppure i risultati ci sono: c’è una ragazza, ad esempio, molto brava, che ha messo in pratica le conoscenze acquisite anche nella comunità dalla quale sta per uscire, a beneficio di medici e infermieri”. L’altro sogno è “poter assumere queste persone direttamente da noi: stiamo infatti valutando bandi per l’assunzione di due o tre di loro, almeno per un anno”.

Le pazienti hanno tra i 25 e i 50 anni, italiane e non. Ora c’è anche un’africana: “Mi piacerebbe formare ragazze africane per creare poi cooperative nei loro Paesi, anche se non è un’idea di facile realizzazione. Intanto, verrà a formarsi qui una sarta africana che lavora in S. Salvario, per “europeizzarsi” e poter vendere meglio il suo lavoro”. Non mancano nemmeno le stagiste, provenienti dalla scuola San Carlo.
Se vitalità e idee abbondano, non si può dire lo stesso delle risorse economiche. Anche se nel progetto si investe e dalle vendite al pubblico si incassa molto bene, la sartoria non è ancora riuscita a raggiungere l’autonomia, anche per una filosofia precisa, che parte dell’utilizzo di determinati materiali per il locale e arriva all’uso di stoffe provenienti da Piemonte e al massimo Lombardia, passando per il riutilizzo: tutta una serie di borse e accessori, ad esempio, è stata creata con carta lavabile. Le clienti ci sono, hanno tra i 30 e i 60 anni e sono di livello medio-alto, considerando che si tratta di una sartoria artigianale, non certo alla buona, che produce in serie limitata: “Se entra una signora che vorrebbe un articolo nella sua taglia e non è disponibile, però, glielo prepariamo e non facciamo pagare nulla per gli orli o il lavoro aggiuntivo”
La sartoria è conosciuta (al punto che uno scrittore vorrebbe dedicarvi un libro) anche fuori Torino, piace ed è frequentata: “La gente viene qui apposta, il nostro stile piace perché è molto femminile. Forse dovremo fare il salto nel franchising, per il momento abbiamo puntato sul lavoro in rete che funziona”. La Zanzara ha infatti firmato la grafica della sartoria, che periodicamente funge anche da spazio espositore di altre produzioni, come quella di Fumne, nel carcere di Torino, a cura dell’associazione La Casa di Pinocchio. “Vedere che ciò che creiamo è bello è un beneficio per le pazienti, quindi dobbiamo creare cose belle”aggiunge Elena, sempre con un sorriso sincero e radioso che scalda, come il posto in cui si trova. Del resto, l’allegria che si respira nasce dal fatto che si ride e si scherza tanto, a L’Orlando furioso. Anche nel momento in cui vengono decisi i nomi da dare ai capi, sempre originali: un jeans che lega in modo particolare è diventato “Pizzicotto jeans”, un cappello che ricorda un colbacco, “Colpazzo”, una maglietta lavorata “Scorzetta” e via dicendo. “Ogni volta che un capo è finito, organizziamo una vera e propria riunione, in cui le pazienti propongono i nomi che vengono loro in mente, fino a quando non arriviamo a decidere”.
Tutto col sorriso e con quel cuore che fa dell’operaio un artista.
Info: www.lorlandofurioso.it

 

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