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Verduno Pelaverga – di Pamela Pelatelli

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Rinascita di un vino (forse) afrodisiaco 

di Pamela Pelatelli

Una produzione di centoquarantamila bottiglie è ben poca cosa in una terra dominata dai Barolo, Nebbiolo e Barbera: una scintilla in mezzo a un’esplosione di fuochi d’artificio. In termini di business enologico, significa tredici cantine che si dividono una ventina di ettari di superficie votata a coltivare un solo vitigno: il Verduno Pelaverga. 
pelaverga-2 Chicco piccolo e croccante, grappolo classico a piramide e color prugna: si presenta così il Pelaverga quando è ancora attaccato alla vite. Per secoli è entrato nelle case dei contadini langaroli passando per la porta di servizio: era il vino del pasto quotidiano, quello “che tutti se ne facevano un po’ in cantina”. Lo vedevi spuntare di soppiatto lungo i filari di Nebbiolo o sbucare qua e là nella campagna verdunese. Poi è scoppiato il boom delle Langhe: le cantine moltiplicavano, i figli dei contadini prendevano coraggio e si dedicavano alla viticoltura, i disciplinari allargavano i territori in proporzione agli interessi dei produttori. Nel frattempo, il Pelaverga rimaneva lì: nascosto, timido e passivo all’incombere dei grandi vitigni locali. Eppure aveva a suo favore una tenace resistenza alla fillossera e un’aura altrettanto leggendaria: quel nome, così evocativo eppure chiaro alle orecchie del viandante, non lasciava adito ai dubbi. Di un inebriante succo bacchico si trattava. Eppure, ciò non era sufficiente. 
Per decenni questo vitigno, portato dal Beato Sebastiano Valfré, cappellano di Vittorio Amedeo II, nella terra di Verduno, era rimasto nelle mani di pochi appassionati che tenacemente continuavano a produrne alcune damigiane per amici e parenti. Si diceva che contribuisse a stimolare il desiderio e a esaltare le virtù amatorie dei commensali. I più saggi ne apprezzavano soprattutto i toni speziati e, al contempo, fruttati, i bassi livelli tannici e quella leggera sensazione di ebbrezza che scalda il cuore senza appesantirlo. Niente di più lontano dal meditabondo e burbero Barolo, che tanta gloria aveva accumulato negli anni.

Nel 1972, alcuni avventurosi decisero di reimpiantare il vitigno lì dove la storia lo aveva collocato due secoli prima. Erano Domenico Morra di Cascina Mosca e le sorelle Burlotto del Castello di Verduno. Marina Burlotto, ricordando quegli anni, racconta che la gente del posto le prendeva per pazze a impiantare un vitigno che, allora, non aveva alcun commercio. “Il sacrilegio era pure doppio,  dice Marina, una delle due sorelle, poiché a farlo erano due donne”. A Wanda Gallo, nipote di Domenico, risuonano invece chiare in testa le parole del nonno che, dice, “aveva semplicemente paura che andasse perso. Credeva nelle potenzialità di questo vino, vissuto in casa come un compagno di vita e non voleva immaginare che di lì a qualche anno non se ne sarebbe prodotta più neanche una bottiglia”.
Non è comune oggi trovare persone tanto affezionate a un prodotto della terra, specie se scarsamente fruttuoso da un punto di vista commerciale. Eppure lo sguardo esperto ci aveva visto lungo. Nel tempo, le analisi ampelografiche, enologiche e agronomiche hanno testimoniato la totale originalità del Pelaverga di Verduno rispetto al cugino saluzzese, per decenni considerato il vitigno-padre. Più piccolo l’acino, differenti le proprietà organolettiche. 

Un inconfondibile colore rubino cerasuolo brillante, virante al granato, che ricorda i semi di melograno; un profumo caratteristico e fragrante, che dal mirtillo alla fragola vira verso le note pungenti del pepe bianco e della noce moscata, fino a evocare i profumi della rosa, del rosmarino e del geranio. 
È come un corteggiatore al primo appuntamento. Si presenta con mazzi di fiori, regali e proposte dalle quali è difficile tirarsi indietro. Ammalia la sua conquista. “È per questo che piace molto alle donne: all’inizio non si dichiara per quello che è. Solo in un secondo momento rivela le sue vere intenzioni” dichiara Vittore Alessandria, capofila della piccola cordata di produttori distribuiti tra il territorio di Verduno e quello di Roddi, che oggi detengono la produzione di Pelaverga. “Passa per un vino facile e poco impegnativo, ma in realtà raggiunge facilmente i 14° alcolici e dunque dopo i primi sorsi rilascia una vivace sensazione di ebbrezza”.
Vittore Alessandria è il giovane erede dell’attività vinicola di famiglia Fratelli Alessandria: centocinquant’anni per il vino. E del resto, uno la cui azienda si trova proprio in Via Beato Valfré forse era destinato a dedicare gran parte del suo tempo al Pelaverga. Lo trovi alle degustazioni, a parlare di Pelaverga con scrittori e appassionati, a rilasciare interviste a giornalisti curiosi; soprattutto, è il promotore da quasi dieci anni della Festa del Pelaverga a Verduno, che si svolge nella prima settimana di settembre. Lo senti appassionato e orgoglioso. Anche grazie a lui, il Pelaverga ricevette la Doc nel 1995. “Negli ultimi anni sta attraversando un trend decisamente positivo anche se probabilmente non potrà mai fare concorrenza ai Dolcetto o ai Barbera locali poiché non ha la stessa vocazione per i grandi numeri”,dice. Ma si moltiplica il passaparola, nascono gruppi di “amici del Verduno Pelaverga” su Facebook o viene paragonato allo champagne, come accade nel recente libro Anime in carpione (2011, Mursia) di Paolo Ferrero.
Vent’anni, un vino, una passione: c’è niente che si amalgami meglio?” scrive Cristina Fracchia, giornalista enogastronomica e blogger, ricordando anche lei la prima volta in cui ha assaggiato il Pelaverga. Era in un’antica osteria di Alba in compagnia di un amico un po’ speciale e quel vino “da bersi assolutamente giovane”, accese una passione ancora acerba. Molto prima di lei, Vittorio Emanuele II si lasciava ammaliare da questo vino con la Bela Rosin nella tenuta di Verduno. La leggenda è riportata nel libro A undici metri dalla fine di Gianluca Favetto, che lo descrive così: “gli faceva quell’effetto lì, parlava in piemontese e l’ha detto in piemontese, “plava la verga”. Glielo faceva rizzare? Duro e cantante”.

 

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