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Il re degli ebanisti, l’ebanista dei re – di Lucilla Cremoni

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Pietro Piffetti alla Fondazione Accorsi-Ometto

di Lucilla Cremoni

cover-sett13 Strabiliante, semplicemente strabiliante. Che si tratti di un arcolaio o del monumentale paliotto di San Filippo, di un tavolino da gioco o di un tabernacolo, anche chi non ama le iperboli non può definire in altro modo l’arte di Pietro Piffetti. Intarsi rutilanti di ebano, palissandro, avorio, lapislazzulo, diaspro, tartaruga, madreperla, metalli, pietre dure, materiali autentici o imitati con la pittura, motivi originali e riproduzioni di incisioni e dipinti, scene villerecce, illustrazioni di mestieri e allegorie religiose, decorazioni geometriche e nature morte, carte da gioco e spartiti musicali. 
Definire strabiliante solo l’impatto visivo dell’opera finita è però limitativo, perché la definizione va moltiplicata almeno per tre: per la creatività e la progettualità, per  quantità di lavoro e tempo che ciascun pezzo ha richiesto, per la maestria esecutiva di ogni minimo dettaglio. E tutto questo va moltiplicato per 220, cioè il numero di lavori eseguiti da Piffetti nel corso della sua quarantennale carriera secondo la stima fatta da Giancarlo Ferraris in un importante studio del 1992. Una settantina le opere arrivate fino a noi.
Piffetti era l’ebanista di corte e i suoi committenti privati erano i massimi esponenti dell’aristocrazia; ricoprì cariche importanti nell’Arciconfraternita dello Spirto Santo, di cui la moglie Lucia fu anche Priora, e naturalmente collaborò con l’Università dei Maestri Minusieri (contemporaneamente e assieme a Luigi Prinotto, maggiore di una quindicina di anni). Ma probabilmente non si considerò mai un artista, né tale fu considerato: era e restava un artigiano, un “Mastro Ebanista”. Ma artista fu, indiscutibilmente. Certo, aveva la perizia tecnica ed esecutiva dell’eccelso artigiano, ma anche molto di più, e la sua figura ha l’unicità tipica degli artisti. 
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi, non era cresciuto in bottega: il nonno era mastro d’ascia ma il padre, nato ad Asti, dopo inizi da falegname si era trasferito a Torino dove aveva aperto un’osteria, e qui Pietro nacque nel 1701. Le condizioni economiche della famiglia erano più che modeste eppure Pietro, contrariamente ai suoi fratelli, tutti rimasti semianalfabeti e avviati a mestieri umili, ricevette un’ottima istruzione che includeva musica, calligrafia e letteratura. È dunque ipotizzabile che un religioso abbia deciso di prendersi cura della formazione di quel bambino.
Piffetti era un uomo di cultura, devozione e forti principi morali, e fu proprio la cultura ad allargare gli orizzonti di un artigiano abilissimo trasformandolo in artista, a renderlo in grado di cogliere stimoli provenienti da altre discipline e stili, a fargli concepire le sue opere come mezzo per trasmettere un sistema di valori e messaggi etici; a fargli creare una decorazione che incorpora e fonde elementi originali e citazioni, gusti e tradizioni diverse, la monumentalità dello stile italiano e  la ricerca del dettaglio tipica della tradizione europea.
Se la padronanza tecnica fu per lui il mezzo e non il fine, ciò non toglie che quella di Piffetti fu eccezionale e scrupolosamente coltivata per tutta la vita. Fu certamente acquisita nel modo consueto, cioè andando a bottega da un mastro artigiano e poi ottenendo il diploma di ebanista nel 1721 o 1722, ma poi fu perfezionata con un lungo soggiorno romano, reso possibile dall’interessamento di qualche personalità di corte (e forse addirittura di Juvarra, a Torino dal 1714 e col quale in seguito Piffetti lavorò) accortosi del talento del ragazzo. Per quanto plausibili, tutte queste restano ipotesi perché della formazione torinese e romana di Piffetti si sa pochissimo, se non che nel 1731 tornò a Torino per diventare ebanista di corte e restare tale fino alla morte nel maggio 1777.
I lavori di Pietro Piffetti, riscoperti alla fine dell’Ottocento e portati ad esempio di suprema valentìa tecnica, sono stati inclusi in diverse mostre storiche sul Barocco, come quella di Venezia del 1929 e quelle di Torino del 1937 e 1963, ma curiosamente nessuna mostra monografica è mai stata dedicata a quello che è indiscutibilmente uno dei maggiori ebanisti della storia.
A colmare la lacuna provvede ora la Fondazione Accorsi-Ometto, che dal 13 settembre 2013 al 12 gennaio 2014 allestisce nella Sala dei pannelli cinesi una mostra il cui spunto è la recente acquisizione di un cofano-forte che si aggiunge agli altri sette capolavori piffettiani già di proprietà del Museo. Oltre ai pezzi in collezione, la mostra proporrà una ventina di opere in gran parte inedite perché appartenenti a privati.
Piffetti costruì tre cofani-forti per il re Carlo Emanuele III: uno nel 1732, uno nel 1745 e l’ultimo nel 1760. Uno di questi è quello acquistato dalla Fondazione Accorsi-Ometto ed è un oggetto rarissimo sia per la sua paternità sia, soprattutto, per la sua funzione – era praticamente una cassaforte portatile, originariamente dotata anche di una complicata serratura. Nel corso del tempo la serratura è stata rimossa e il mobile ha subito delle alterazioni che ne hanno reso necessario il restauro, eseguito dalla Fondazione Centro per la Conservazione ed il Restauro dei Beni Culturali “La Venaria Reale”, ormai riconosciuto punto di riferimento per il restauro dell’ebanisteria piemontese e in particolare delle opere di Piffetti; anche il percorso di restauro sarà documentato, vista la sua particolare complessità e l’uso di alta tecnologia (come la tomografia e la radiografia digitale). 
Due le sezioni della mostra, l’una dedicata ai lavori di tema profano l’altra a quelli (decisamente meno numerosi) di carattere religioso.
Si comincia con il cofano-forte, composto da un tavolino da centro con eleganti piedi a riccio, e da un bauletto leggermente bombato. È decorato in avorio graffito e policromo, riccamente intarsiato e con marquetterie a mosaico, ed è trattato con il medesimo approccio estetico e cura che Piffetti riserva ad opere del tutto diverse per funzione e forma. Altrettanto raro un arcolaio, esposto solo una volta (nel 1963 alla grande mostra sul Barocco piemontese) e due cofanetti, uno dei quali appartenente alla Regione Piemonte ed è in affidamento alla Reggia di Venaria, firmato e datato “Petrus Piffetti fecit et schulpi Taurini 1738”. Completano la sezione uno scrittoio in legno violetto, legno di rosa e avorio (1760 circa); due cassettoni tra cui quello in avorio colorato, madreperla e legni pregiati di proprietà del Museo Accorsi-Ometto; e una serie di tavolini, alcuni inediti, altri già noti, come quello di Palazzo Madama che presenta sul piano della mensa un gioco di illusione ottica fatto di oggetti intarsiati in avorio. 
Nella seconda sezione, quella dedicata alle opere sacre, accanto a un inginocchiatoio da parete del 1755-60 in legno e avorio sarà possibile ammirare uno dei due tabernacoli che da un secolo sono custoditi a Bene Vagienna. Realizzati molto probabilmente per il convento cappuccino di Carrù su possibile committenza dei Costa della Trinità, sono capolavori della produzione sacra barocca: strutturati come una piccola cappella, furono interamente impreziositi con intarsi in madreperla e avori policromi. 
L’esposizione è curata direttamente dalla Fondazione Accorsi-Ometto e organizzata in collaborazione con il Consiglio Regionale del Piemonte, che ne ospiterà una parte. A Palazzo Lascaris saranno esposte tre opere tra le più significative della produzione di Piffetti: uno dei due tabernacoli di Bene Vagienna e la coppia di stipi del Museo Accorsi-Ometto di Torino. Questi due armadietti, completamente ignoti fino a qualche anno fa, presentano preziose decorazioni in avorio, sulle quali compaiono, pirografate, scene tratte da L’art de tourner en perfection del frate Charles Plumier, stampato a Lione nel 1701, uno dei massimi trattati sulle tecniche di tornitura dell’avorio di tutto il Sei e Settecento europeo.

PIETRO PIFFETTI – Il re degli ebanisti, l’ebanista del re
13 settembre 2013 – 12 gennaio 2014 – Museo Accorsi-Ometto
13 settembre – 30 novembre 2013 – Palazzo Lascaris

 

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