L’anarchico che piace ai francesi (esperti)
di Danilo Poggio
Si dice che il re d’Italia lo amasse al di sopra di ogni altro vino, dichiarandosene entusiasta davanti a tutti, anche durante la sua visita all’Esposizione e Fiera dei vini nazionali del 1891 ad Asti. E a papa Francesco, nel comune di Portacomaro, a poca distanza dalla casa dei Bergoglio, il sindaco ha deciso di intitolare proprio una vigna comunale coltivata a grignolino.
Un vitigno dal carattere talmente difficile e controverso che ancora non è stato completamente compreso e definito, perché sfugge caparbiamente ad ogni forzatura. Il vino Grignolino, tutto sommato, è fiero di continuare a proclamarsi, come diceva Veronelli nel 1972 nella sua Guida all’Italia piacevole, “testa balorda, anarchico, individualista”.
A pensarci bene, è proprio una testa balorda, a partire dal colore. Troppo rosso per essere un bianco, troppo chiaro per essere un rosso piemontese, non si può definire neppure rosato. Difficile andarlo a spiegare a un mercato globalizzato che fino a qualche tempo fa comprendeva soltanto i vitigni internazionali, quelli noti e rassicuranti. La vinificazione del Grignolino è in rosso a tutti gli effetti, con macerazione sulle bucce, eppure quel colore scarico, dovuto alla scarsa presenza di antociani, senza sfumature violacee, lo rende estremamente insolito. Per non parlare delle caratteristiche organolettiche. Anche il degustatore più esperto deve prestare la massima attenzione perché il profumo e il gusto sono talmente particolari da poter essere male interpretati. Ovviamente vale per tutti i vini, ma quando si assaggia Grignolino bisogna ricordare bene che si assaggia Grignolino, con tutte le sue specificità. E allora, il profumo, pur delicato, non ricorda solo il bosco con i suoi frutti, ma anche le spezie. E quelle stesse spezie stupiscono al palato, con un pepe bianco talmente evidente da risalirti sino al naso e farti starnutire, mentre il finale amarognolo ti riempie la bocca.
Mario Soldati lo ha definito come “il più delicato tra tutti i vini piemontesi”, ma sarebbe del tutto sbagliato considerarlo un debole.
È un vino che resta anarchico persino nel nome e che impedisce di averne ben chiara l’etimologia. Quasi sicuramente, Grignolino deriva dal termine dialettale gragnole, i vinaccioli responsabili in gran parte del tannino. Un’altra versione, invece, fa riferimento a grignè, cioè ridere, ricordando la vocazione allegra e festaiola del nettare di Bacco.
Una dotta diatriba difficile da dirimere, anche se il termine è nato intorno al 1700, in tempi – tutto sommato – recenti. Il vitigno però è ben più antico e probabilmente è il Berbexinus citato negli archivi capitolari di Casale Monferrato del 1249.
La diversità, soprattutto nel mondo dei vini, si trasforma in ricchezza. E il lavoro dei produttori piemontesi consiste soprattutto nello scoprire (o nel riscoprire) la duttilità del vitigno monferrino per eccellenza. C’è chi si sta muovendo per proporre alcune modifiche al Disciplinare, al fine di renderlo più al passo coi tempi, rispettando comunque la tradizione. Già il prossimo anno, ad esempio, potrebbe essere introdotta la tipologia Riserva. Spiega il produttore Ermanno Accornero: “Basta guardare alla storia per sapere che fino alla fine dell’Ottocento il Grignolino rappresentava il coronamento delle feste più importanti. Per la sua unicità e finezza, era annoverato tra i grandi vini piemontesi da invecchiamento, accanto a Barolo e Barbaresco, ben distante dai vini quotidiani contadini di pronta beva. Ci piacerebbe che questa importante tradizione fosse riconosciuta dal Disciplinare, contribuendo in qualche modo anche a modificare l’immagine distorta di vinello facile. Noi cerchiamo di produrre un vino importante, con lunga macerazione e un affinamento da trenta mesi. Le bottiglie vengono messe in vendita cinque anni dopo la vendemmia”.
Altri, invece, sperimentano con le bollicine, producendo un curioso (e apprezzato) Grignolino metodo classico: “È stata una vera e propria scommessa, racconta un altro produttore, Mauro Gaudio, creare uno spumante con un vitigno autoctono, tipicamente piemontese e tipicamente monferrino, e non con le solite uve internazionali. Trentasei mesi sui lieviti per un rosè dalle meravigliose venature d’aragosta”.
Insomma, l’inventiva non manca ai produttori piemontesi, che da anni, innamorati del vitigno anarchico, cercano di raccontarlo in Italia e all’estero. Dal punto di vista commerciale, c’è un sostanziale equilibrio di mercato, con un’offerta che soddisfa la domanda degli appassionati, soprattutto sul mercato italiano.
E il futuro è incerto. Mentre si discute, proprio in questi mesi, sulla creazione di uno o più consorzi di tutela, qualcuno propone anche di modificare il nome, per renderlo più facilmente pronunciabile a livello internazionale. Di certo, però, grazie alla tenacia dei produttori piemontesi, il vino anarchico per antonomasia si trova nella carta dei vini di alcuni eleganti e blasonati ristoranti parigini.
E i francesi, almeno per ora, sono costretti a pronunciare i difficili suoni di una parola tutta monferrina.
Questo articolo ha vinto l’ottava edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Enogastromia, Economia, Ambiente