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Valliera, tradizioni e futuro – di Federico Carle

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Una borgata alpina ristrutturata grazie a un gruppo di amici sognatori: oggi si è tornati a produrre il Castelmagno d’alpeggio che dà lavoro e un futuro ai giovani, alle case e al turismo del territorio

di Federico Carle

Nei giorni in cui trema il cuore dell’Italia sotto i colpi del terremoto, vogliamo raccontarvi una bella storia di ricostruzione, anzi di rigenerazione. Un esempio di speranza per le nuove generazioni; una storia di pietra, di radici e di passato che diventa presente, pieno di futuro.
borgata-copia È la storia del recupero della borgata Valliera nel comune di Castelmagno, in provincia di Cuneo. Millecinquecento metri sul livello del mare in alta in Valle Grana: da Caraglio in direzione Pradleves verso la frazione Colletto e poi ancora su lungo una vecchia mulattiera stretta, in parte asfaltata ma in parte ancora sterrata.
Una borgata ripida, abbarbicata alla roccia della montagna e affacciata sulla gola del vallone nel quale “se scivolavi, capitava che ti andassero a raccogliere direttamente giù in paese”, dice Aurelio Agnese. Una borgata che nonostante tutto è stata viva e vitale con oltre un centinaio di abitanti fino agli anni Cinquanta. Poi, le sirene delle fabbriche in pianura hanno suonato ammaliando i residenti di allora, quasi tutti pastori e contadini: “Ma chi ce lo fa fare di stare qui a sgobbare? – avranno detto in massa – “Andiamo giù, lavoriamo qualche anno, mettiamo qualcosa da parte e poi torniamo… e viviamo di rendita per tutta la vecchiaia”.
Ma la comodità della città, il boom economico e tutto il resto che possiamo immaginare non li hanno fatto di certo tornare, e Valliera è diventata una borgata fantasma. “Sembrava davvero, le prime volte, di entrare in case seppur mezze crollate, ancora abitate”, racconta Aurelio. “Pareva che il tempo si fosse fermato: i tavoli erano ancora apparecchiati, gli armadi pieni, le cucine colme. Sembrava la Pompei del post eruzione del Vesuvio, dal tempo congelato”.
Qui, Aurelio Agnese e Oscar Benessia con le loro mogli Sandra Arneodo e Debora Garino si sono innamorati. Non fra di loro, ma del paesaggio e hanno comprato una seconda casa in cui passare le domeniche. Abitano a Caraglio e sono sensibili alla bellezza del territorio; producono aglio principalmente, il pregiato aglio di Caraglio o – detto in piemontese con un curioso calembour – l’Ajd Caraj. Amano i frutti della terra e pensano che sfatare i miti (perché a molti l’aglio fa storcere il naso) sia una cosa importante, anche per questo hanno creato una linea di prodotti chiamata “Aj love you”, proprio per far capire alla gente che le cose non sono sempre tutte scontate, e che prima di arrivare alle conclusioni, bisogna provare.
Provare, già: la stessa cosa che hanno fatto con Valliera insieme alla società agricola “Des Martin”. “In realtà abbiamo iniziato entrambi in maniera indipendente a pensare al recupero della borgata… finché a un certo punto, ci siamo trovati e unito le forze”, commenta Oscar. Così è iniziata l’opera di “rammendo” del territorio, per dirla con le parole di Renzo Piano – quel rammendo di cui avrebbe davvero bisogno in toto il nostro Paese ferito.
Ma chi sono i “Des Martin”? Sono dieci (des) amici (Martin era il cognome più diffuso in borgata) che nel 2007, seduti dietro a un tavolo dopo una cena di beneficenza per un progetto con le popolazioni di Capo Verde andato bene, hanno pensato di fare qualcosa di buono anche per il loro territorio. Sette di loro sono imprenditori, sei sono produttori di grandi vini rossi delle Langhe che tutti conosciamo. Hanno pensato, forse, alla fatica che fecero i loro nonni dopo la guerra per tirare su da quelle vigne così martoriate un prodotto buono che facesse anche bene al territorio, e ai suoi abitanti. Un modo per unire la coltura alla cultura, e a un nuovo welfare.
Così insieme a due architetti e un malgaro hanno deciso di credere nel recupero di Valliera. Hanno presentato un progetto, col sostegno della Cia (Confederazione italiana agricoltori), all’interno del Piano di sviluppo rurale (Psr) 2007-2013, e hanno vinto. Il piano prevedeva che l’ottanta per cento del recupero fosse finanziato da fondi europei e che il restate venti fosse messo dalle amministrazioni locali. Ma quest’ultime si sono dimostrate sorde, così la cordata di “sognatori” ha pagato di tasca propria la parte mancante. “È stato un bell’esempio di Europa che funziona, a discapito delle istituzioni locali che da sole non sarebbero state in grado di recuperare il borgo”, ha sottolineato Oscar.
Ma tutto questo per fare cosa?
Beh, in primis per fare il re dei formaggi, il formaggio dei re: il Castelmagno d’alpeggio. Coi contributi del Psr si sono rifatte le strade, l’illuminazione pubblica e privata, l’acquedotto, le fognature ed è stato possibile ristrutturare alcune case. Quelle i cui padroni, o le generazioni successive, si è riusciti a contattare attraverso un lungo lavoro di ricerca.
Ma, cosa importante, si è potuto dare lavoro ai malgari per far pascolare oltre quaranta capi bovini (razza Mont Béliarde e Grigia alpina) a milleottocento metri d’altezza, in un lavoro di recupero anche delle erbe aromatiche d’altura. Questo per poter ottenere il pregiato latte vaccino dal quale produrre il Castelmagno, in un caseificio costruito ex novo in cima alla borgata. Così anche Emiliano, giovane casaro, ha trovato lavoro grazie ai Des Martin: “Vedo tanti trentenni come me che non stanno facendo nulla, dice, continuando a lavorare senza interruzione, disoccupati senza futuro. Eppure impieghi come questo ce ne sono; certo è faticoso perché ogni giorno lavoro da solo oltre seicento litri di latte e il processo è tutto manuale, ma almeno ho un’occupazione e non mi lamento. Preferisco sgobbare adesso qui in montagna, e poi magari starmene tranquillo in futuro”.
Insomma, il ragionamento inverso rispetto a chi la borgata l’aveva abbandonata per fuggire in pianura, perché i Des Martin sono le radici che trattengono il territorio della nostra cultura: “Il Castelmagno d’alpeggio viene venduto a 45 euro al chilo; è forse uno dei formaggi più costosi, ma nonostante ciò non sente la crisi ed è amatissimo anche all’estero”. È il nostro oro bianco per il quale non servono trivelle né miniere. Per il quale basta crederci, e mettersi in gioco.
Nonostante i soldi europei, gli investimenti privati sono stati importanti”, dice Oscar. “Non è stato fatto ovviamente per fare profitto, ma per unire un progetto etico all’estetica del territorio. Vorremmo qui un turismo lento, responsabile…”.
Sì perché a Valliera la Comunità montana già da alcuni anni ha aperto un rifugio nel quale si può fare un viaggio nelle prelibatezze del gusto locale, un rifugio che è la struttura madre del cosiddetto Albergo diffuso, perché disseminato su tutta la borgata. “Il concetto, continua Oscar, è che le varie case recuperate diventino esse stesse stanze satellite dell’albergo: un modo per ampliare l’offerta ricettiva recuperando quello che già c’è senza costruire nuovi mastodonti inutili”.
La struttura è coordinata dalla Valliera welcome lab, società di promozione del territorio a cui collaborano sia Des Martin che Fattoria dell’aglio, ovvero la realtà gestita da Oscar, Aurelio e consorti. Loro, in una baita ristrutturata della borgata, portano da novembre fino alla primavera l’aglio dalla pianura: “Qui in quota si conserva in maniera eccellente, racconta Aurelio, l’umidità è perfetta e col freddo sembra che sia in frigo, ma senza consumo di energia elettrica”.
E il futuro?
Stiamo scrivendo un nuovo progetto con la collaborazione del Consorzio del Vallone di Valliera per realizzare dei parcheggi e un sistema di trasposto sostenibile. Vogliamo turismo, ma non vogliamo che le auto vengano fino qui!” dice Oscar. “In più vorremmo allestire un cinema di alta quota all’interno di una vecchia stalla recuperata…”. “Beh, pian piano… sasso dopo sasso, ride, cioè volevo dire, passo dopo passo…”.
Già, perché questa startup innovativa (lo è a tutti gli effetti) sarà anche smart, due punto zero, social e tutto il resto, ma conserva una cosa che la rende unica. La lentezza delle cose belle: come una foglia d’erba che cresce, o come una forma di Castelmagno che per anni nel silenzio, stagiona. Perché il mondo cambia, ma per fortuna ogni tanto sa anche guardarsi indietro. E andare avanti così, per davvero.

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