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Acqua e giacche spaziali: il Centro Ricerche della SMAT a Torino – di Andrea Di Salvo

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Il Centro Ricerche Smat fornisce la Stazione Spaziale Internazionale, ma controlla anche ogni giorno l’acqua che esce dai nostri rubinetti

di Andrea Di Salvo

La facciata del Centro Ricerche Smat di Torino ricorda molto quella di un acquedotto romano, con le arcate in pietra e malta sostituite da vetro e cemento. La società che gestisce le acque cittadine se ne è dotata nel novembre del 2008, tra le prime aziende di questo tipo in Italia. Oltre a fornire il controllo giornaliero sulla qualità dell’acqua erogata alle utenze (per un totale di oltre settecentomila analisi l’anno su tutte le acque gestite), e a garantire 155 punti acqua collegati direttamente alla rete e sparsi sul territorio di propria competenza, la società ha avviato parecchi progetti paralleli in collaborazione con molte realtà universitarie, torinesi e non, e con importanti istituti italiani e internazionali. Diversi di questi riguardano le attività spaziali: come sappiamo, l’azienda rifornisce la Stazione Spaziale Internazionale (Iss) di acqua potabile.
Da diversi anni la dirigente responsabile del Centro Ricerche è Lorenza Meucci, ingegnere chimico, in azienda dal 1986. Quali sono le principali attività del Centro?
In questo Centro Ricerche svolgiamo essenzialmente due grosse attività: la prima è quella di ricerca, la più interessante per il pubblico, mentre la seconda è il controllo delle acque, molto importante per i nostri utenti. Quindi oltre ai locali dedicati all’Area Ricerca, esiste un’altra sede a Castiglione Torinese dedicata appunto ai controlli sulle acque, potabili e reflue. Tanto per fare un esempio, in questa sede abbiamo un laboratorio per i sistemi di monitoraggio on-line dove alle classiche misure chimico-fisiche come il pH, la temperatura e la torbidità; e a quelle di tipo chimico come la concentrazione di elementi presenti nelle acque (per un totale di 52 parametri monitorati) si aggiunge un’analisi biologica delle stesse. Si usano tre vasche per questo tipo di test: nella prima, dove c’è l’acqua che sta entrando nella rete cittadina, sono presenti delle trote iridee che indicano se l’acqua è sana per l’utente. Nelle altre due vasche invece ci sono dei pesci e dei molluschi

Vasche con trote iridee e molluschi bivalvi

bivalvi: viene testata l’acqua del fiume che preleviamo per farla diventare potabile. Da quando la preleviamo a quando diventa potabile passano sei ore, durante le quali effettuiamo tutti i test per avere la garanzia che l’acqua sia buona e sana per i cittadini. Loperato mio e di tutti i miei settanta collaboratori circa consiste nel controllo della qualità sanitaria per le acque potabili e ambientale per quelle reflue che trattiamo, e nella ricerca che vuol dire studiare, sperimentare e innovare, cercando di migliorare per esempio la qualità dell’acqua, i servizi che diamo ai cittadini e l’efficienza”.
La ricerca è effettuata esclusivamente con personale interno o vi avvalete anche di collaborazioni esterne?
Per noi le collaborazioni esterne sono importantissime. Smat persegue una politica di collaborazione con il Politecnico e l’Università di Torino. I progetti avviati in partnership vengono condivisi e finanziati dalla Smat, proprio perché noi vogliamo investire in ricerca, facendo però le attività insieme. Ci sono attività più semplici, come ottimizzare un impianto, ma possiamo avere degli obiettivi molto più ambizioni, come scoprire il quarto stato dell’acqua (acqua che, in particolari condizioni, rimarrebbe liquida anche a temperature inferiori ai quaranta gradi sotto zero, ndr) o l’exclusion zone (studio dell’acqua della “zona di esclusione”, che potrebbe avere risvolti significativi sull trattamento dell’acqua ndr).

Locali per la produzione dell’acqua di volo

Si parla molto delle vostre collaborazioni “spaziali”…
Partecipiamo a progetti internazionali: al momento sono tre, di cui due finanziati dall’Unione Europea nell’ambito del programma quadro Horizon 2020. Questi sono collegati alla nostra vocazione spaziale perché nel primo (Biowse) si tratta di inventare un sistema per analizzare l’acqua nello spazio e, in caso di contaminazioni microbiologiche, correggerla subito. Abbiamo anche un altro progetto spaziale, chiamato Perseo, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), che prevede la predisposizione di un giubbotto riempito d’acqua che dovrebbe proteggere gli astronauti dalle radiazioni cosmiche.
E per quanto riguarda l’acqua di uso comune?
Abbiamo inoltre collaborazioni con il mondo dell’industria. Ai progetti che ho appena nominato partecipano società importanti come Thales Alenia Space e in un altro siamo in partenariato una società finlandese che produce un sistema innovativo per risparmiare energia negli impianti di depurazione, con celle ad ossidi solidi, quindi di nuova generazione. Un interessante progetto di ricerca che stiamo attivando, molto importante per i cittadini, è un sistema che permetta in qualche modo di pianificare la sostituzione delle nostre condotte idriche. In linea di massima le condotte si sostituiscono dopo un certo numero di anni in base proprio all’età. Da studi fatti negli Stati Uniti, in Australia e nel Regno Unito, questo non dovrebbe essere il solo parametro. Ne esistono altri che contano molto, come il materiale di cui è fatta la condotta, perché ne esistono di molto resistenti alla corrosione ma magari sono più deboli ad eventuali rotture. Inoltre è possibile che ci passino sopra dei mezzi come il tram che quindi può creare dei problemi o ancora possono accadere dei cambi di pressione improvvisi. Questo progetto dovrebbe darci uno strumento per scegliere meglio dove intervenire prima, fornendoci una pianificazione basata su più criteri”.
Perché è stata scelta la Smat per la fornitura d’acqua potabile per la ISS?
Il progetto dell’acqua di volo è nato dall’allora Alenia Spazio che ci aveva interpellati per avere le informazioni sulla qualità dell’acqua. Vedendo che eravamo molto competenti perché è il nostro lavoro quotidiano, ci hanno affidato questo compito che è molto complicato. La commessa riguardava due acque molto diverse: una abbastanza carica di sali, l’altra quasi priva; una era destinata ai cosmonauti russi, l’altra agli americani. I russi volevano l’acqua disinfettata con sali d’argento, gli americani la volevano disinfettata con lo iodio. Abbiamo passato anni a studiare come fare quest’acqua”.
E come avete proceduto?
La prima cosa è stata trovare, nel nostro carnet di acque, quella più adatta. Noi la eroghiamo in trecento comuni, quindi abbiamo acque oggettivamente molto diverse: da quelle leggerissime, come quella del Pian della Mussa che arriva a Venaria, ad acque abbastanza dure come quella di Bardonecchia che ha una durezza simile a quella di Roma,

Locali di monitoraggio

perciò parecchio elevata. Abbiamo così scelto due acque nostre, già potabili, che erogavamo ai cittadini: una è proprio quella del Pian della Mussa, e questa era la base per fare l’acqua americana, perché gli americani volevano l’acqua con pochissimi sali. Invece l’altra era un’acqua per lo più derivata da pozzi nella zona di Rivalta. Quest’ultima era mediamente mineralizzata, quindi con una durezza media, simile a quella che mediamente si beve in Torino, ed era più adatta per fabbricare l’acqua russa. Dopo aver scelto queste due acque, abbiamo cominciato a studiare come trattarle per renderle coerenti con i requisiti imposti dalle due agenzie spaziali, e abbiamo trovato due trattamenti diversi. L’acqua russa viene addizionata di fluoro, perché ci era stata richiesta la presenza di questo elemento; poi viene microfiltrata, trattata opportunamente con argento e nuovamente microfiltrata, ed è pronta per l’utilizzo nello spazio. L’acqua americana invece è semplicemente microfiltrata dopo essere stata addizionata di sali di iodio. Di per sé sembra facile, ma in realtà entrambi i processi hanno dei problemi”.
Quali sono questi problemi?
Nel primo processo c’è il problema di mantenere l’argento a una concentrazione sufficiente per garantire la stabilità microbiologica dell’acqua per tutto il periodo in cui gli astronauti potrebbero berla, vale a dire almeno sei mesi. La difficoltà principale delle acque nello spazio è proprio mantenere la stabilità assoluta dal punto di vista chimico, ma soprattutto microbiologico, perché non è come sulla Terra dove l’acqua viene consumata in un periodo molto breve. Lì deve durare e deve essere riciclata. La prima missione con la nostra acqua è partita dal centro di lancio di Kourou, nella Guyana francese, nella primavera del 2008. Da allora, l’abbiamo mandata nello spazio altre quattro volte. Complessivamente l’acqua mandata nello spazio è oltre 10 metri cubi. La prima acqua l’abbiamo fornita in due modi: un primo carico con un’alta concentrazione di disinfettante (argento, appunto), che serviva per pulire i contenitori e i condotti con cui veniva a contatto. L’acqua vera e propria poi, con la concentrazione normale di disinfettante (intorno a 0.5 mg/l di argento), era destinata a essere bevuta dagli astronauti. Con la prossima missione, invece, andrà su il giubbotto del progetto Perseo, e Paolo Nespoli farà il test di vestibilità e di carica. Il giubbotto viene prodotto con del materiale speciale ed è frutto di una collaborazione tra la nostra azienda, l’Università di Pavia, Thales Alenia, l’Università di Roma Tor Vergata e due aziende, Altec e Aviotec”.
In cosa consiste nello specifico questo esperimento?
Lorenza Meucci passa la parola a Elisa Brussolo, fisico, che è coinvolta nel progetto.

Il giubbotto Perseo e Nespoli

Il progetto consiste in un giubbotto per mitigare gli effetti della radiazione cosmica e di quella solare sugli astronauti delle future missioni nello spazio profondo. Attualmente gli astronauti, in caso di eventi solari particolarmente significativi, possono solo rifugiarsi in determinate aree protette da scudi schermanti. Il giubbotto consentirà di proseguire le attività semplicemente indossandolo, perché bastano 6 centimetri di acqua per creare un’adeguata protezione. È costituito da una sacca inferiore che funziona da collettore, mentre altre quattro sacche superiori sono collegate con una circuiteria idraulica. Ognuna di esse è dotata di valvole di entrata e uscita che la rendono isolata. Per motivi di costi, c’è un solo ingresso, che è anche l’uscita. La perdita di acqua, se superiore ai quattro litri, è considerata un evento catastrofico da scongiurare a tutti i costi. Abbiamo quindi dovuto affrontare un compromesso perché più segmentazioni fossero state presenti nel giubbotto e meno si sarebbe rischiato, ma si sarebbe protetto anche di meno l’astronauta per via del maggior numero di cuciture. Per contro, un giubbotto grosso privo di segmentazioni avrebbe causato una catastrofe in caso di rottura. La chiusura è come quella di un kimono e partirà chiuso e sottovuoto per via delle limitazioni di spazio. La prima sarà una prova di vestibilità e di velocità di riempimento e svuotamento. Nespoli proverà appunto a riempire le sacche che compongono il giubbotto per vedere se effettivamente, per come è progettato, si riesca a usarlo. Alla presentazione di Roma ha testato un prototipo con le sacche riempite di gomma piuma e ci ha dato utili indicazioni sulla lunghezza delle parti perché, essendo la sua terza missione, già sapeva quali movimenti avrebbe fatto nello spazio. Trattandosi solo di una prova di vestibilità, ma essendo necessari molti litri per il riempimento, usiamo l’acqua di bordo, cioè quella di volo, che ci viene concessa. In questo modo l’acqua usata può essere reimmessa nel sistema idrico della ISS per essere riutilizzata dopo un processo di potabilizzazione. Per questo il materiale con cui sono fatte le sacche è stato scelto in modo da essere compatibile con il riutilizzo dell’acqua. Questo fatto e l’economia delle risorse usate si sono dimostrate dei punti vincenti”.
Ingegner Meucci, lei ritiene che l’esperienza maturata da Smat con l’acqua di volo possa essere utile anche per la base lunare proposta dall’Agenzia Spaziale Europea e, in futuro, per Marte?
Penso di sì. I progetti come Perseo sono indubbiamente già pensati per andare oltre la ISS. Attualmente stiamo concorrendo a un altro bando, sempre nell’ambito spaziale, per lo studio di nuovi materiali che inibiscano la crescita del biofilm sulle superfici, perché nello spazio sarebbe un bel problema. La Nasa sta ipotizzando di raggiungere Marte con equipaggio umano verso il 2030: non abbiamo la certezza di essere scelti per questa avventura, ma è chiaro che concorriamo per queste nuove frontiere dell’umanità. In ogni caso noi contiamo di avere dei ritorni anche a livello tecnologico perché le attività che facciamo possono servirci anche nel quotidiano o in situazioni di calamità”.

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