I gofri, la Val Chisone in un boccone
A Fenestrelle rivivono le antiche tradizioni occitane
di Diego Vezza
Si ostinano a chiamarlo il cibo dei poveri.
Forse una volta. Perché di poveri, oggi, nella lunga fila che porta al bancone per assaggiare i gofri, non se ne vedono.
È un profumo biancastro, dal sapore antico, a risalire una via Umberto I che mette in mostra il meglio di sé, come in tutti i giorni agostani di festa, che poi significano un gran pienone, dove i villeggianti decuplicano gli abitanti stanziali di Fenestrelle. Salgono su come l’acqua che evapora, dalla città fin sui monti della Val Chisone, per dimenticarsi, per qualche giorno, dell’arsura di pianura.
La coda si allunga affamata fino a raggiungere il negozio di Monica, che, oltre alla propria attività commerciale, riveste anche il ruolo di vicesindaco. Stringe mani e saluta, come saluta i clienti e i passanti anche tutti gli altri giorni. Ma oggi si muove con aria di ufficialità, senza mai perdere di vista la fascia tricolore del suo superiore. “Per qualche ora lascio il negozio in mano a mia figlia,afferma sorridente.“Oggi i doveri istituzionali mi chiamano e io, volentieri, rispondo”.
Come ogni 25 agosto, in occasione della festa patronale di san Luigi IX, Fenestrelle rivive e si sente vanitosa, desiderosa di rievocare il suo prezioso passato. Quello di un’Occitania che non è mai riuscita a diventare uno stato, pur essendo stata un ampio territorio che, partendo dalle valli sopra Pinerolo, arrivava fino al Mediterraneo e poi all’Oceano Atlantico, includendo anche parte dei Pirenei, il Massiccio Centrale e il Delfinato, la cui matrice unificante era la lingua d’Oc parlata dai trovatori sin dal X secolo e che si modificava localmente, il patouàche ancora oggi parla qualche anziano della Val Chisone e della Val Germanasca.
Il signor Luigi, che il patouànon lo parla, è uno dei decani della manifestazione fenestrellese e per lui la preparazione dei gofri non ha segreti. “È una delle principali tradizioni occitane,spiega indaffarato da sotto il tendone, nelle sue vesti ufficiali di capocuoco, e appartiene alla cucina contadina dell’alta Val Chisone. Un tempo era il pane consumato quotidianamente nelle piccole borgate, specialmente d’inverno, quando il forno del paese era difficilmente raggiungibile; e i ferri accompagnavano i pellegrini anche nei loro viaggi”.
È l’unico in piedi, intento a dirigere le operazioni dei suoi colleghi seduti. A diretto contatto con il fuoco, ognuno si prende cura del proprio pentolone in ghisa, la gofriera, composto in sommità da due dischi richiudibili a libro (goufrìe, o fer à gaufre) e in grado di ruotare di 180° per garantire una cottura uniforme su entrambi i lati. “La gofriera deve essere caldissima, tiene a precisare, e poi cosparsa, tramite una pinza, con un pezzo di lardo non salato e bagnato nell’olio”.
Solo allora è possibile versarci sopra una mestolata abbondante di un impasto composto da farina, lievito di birra, acqua e sale, di consistenza non troppo densa. Altre ricette prevedono anche l’aggiunta di latte e uova, ma sono più recenti e più dolci, e ricordano troppo le crêpes francesi.
Dopo cinque minuti di cottura, ed altrettanti capovolgimenti dei piatti in ghisa, si può finalmente tirar fuori dalla gofrierauna cialda croccante, con un diametro di circa 25 centimetri e spessa quasi 1 centimetro dal tipico aspetto a reticolo. Al palato è subito croccante, ma morbida dentro, leggera e digeribilissima. Può ricordare i wafflenordeuropei, ma è più sottile.Ancora calda può essere gustata al naturale, oppure ripiegata su se stessa e farcita con affettati, formaggi, marmellata o crema gianduia.
La gamma di abbinamenti è ampia: “Dovreste assaggiare il gofri con le mie patate rosse e il Plaisentif, la toma alle viole degli alpeggi della Val Chisone, chiamata così perché il latte munto ha il gusto dell’erba del primo alpeggio, quando fioriscono le viole”, racconta Simone Turin, presidente regionale della Cia (Confederazione Italiana Agricoltori, nda) e titolare di un’azienda agricola locale, la cui produzione di punta, oltre alle patate, è la farinaBarbarià, un misto di grano e segale, mescolati già alla semina.
Fu nel 1713, dopo la pace di Utrecht, che Fenestrelle smise di essere una città francese ed entrò a far parte dei possedimenti dei Savoia, così come fu nel corso del ‘700 che si passò dal ferro alla ghisa come materiale di produzione della gofriera. Si dice che l’origine dei ferri per preparare i gofrisi perda nella notte dei tempi, fino all’anno Mille, quando i preti di campagna li utilizzavano per produrre le ostie per la messa.
Nel ruolo di antichi bardi, custodi del sapere e delle storie di un popolo, gli anziani della Val Chisone ricordano ancora come nei giorni di festa intorno alle gofrieresi riunisse l’intera popolazione del paese. Già al mattino le donne erano alle prese con l’impasto e, solo dopo aver acceso i fuochi per scaldare le padelle, si poteva dare inizio alle danze, accompagnati dalla ghironda e dai canti.
Oggi, a Fenestrelle, ad animare la festa è il ritmo incessante dei tamburi.
Annunciano la sfilata del Bal da Sabre, che in lingua occitana significa il “ballo delle spade”, il gruppo folkloristico locale composto dagli Spadonari, uomini con camicia bianca e pantaloni alla zuava rosso-verdi, e dal gruppo femminile con le gonne lunghe, i tipici scialli colorati e le chiare cuffie ricamate a mano. Trasportano in mano grandi vassoi con il pane appena fatto e adornato di fiori, che sarà benedetto durante la messa e poi distribuito ai fedeli.
Le spade degli uomini, che per ora seguono inerti gli spostamenti del bacino, saranno invece le protagoniste in serata della tipica rappresentazione coreografica di origine celtica, un ballo popolare con richiami agli elementi naturali come il fuoco, il sole, la luna e le stagioni. Mentre le donne sono impegnate in courentae mazurke figurate, gli Spadonari, formando un’unica catena in movimento, eseguono delle figure chiamate “rose”, “trecce”, “mulinelli”, senza mai sciogliere l’intreccio di spade, com’era abitudine della cultura rurale dell’epoca.
Le spade ora danzano, ma un tempo uccidevano. Poco sopra il paese si ergono i resti del Fort Mutin, sul versante destro della vallata, costruito nel ‘600 dai francesi per difendersi dai Savoia, e il forte di Fenestrelle, sul versante sinistro, costruito nel ‘700 dai Savoia per difendersi dai francesi. Secoli di guerre per accaparrarsi il possesso della Finis Terrae Cotii (da cui il toponimo Fenestrelle)e cioè “fine delle terre del re Cozio”, sovrano di una moltitudine di tribù celtiche che, ai tempi dell’antica Roma, riscuotevano il pedaggio sulle Alpi che ancora oggi portano il suo nome.
Chissà se anche Cozio, duemila anni fa, mentre governava le popolazioni degli Iemeri della Val Chisone e dei Maielli della Val Pellice, avrà avuto il tempo di assaggiare un buon gofri.
Questo articolo ha ricevuto il terzo premio alla XII edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Economia, Turismo, Ambiente