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Bianco d’Alba, il tubero dei potenti – di Giovanni Andriolo

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Il tubero dei potenti

di Giovanni Andriolo

È anonimo il banchiere di Hong Kong che nel 2006 si è aggiudicato per 125.000 euro un esemplare di tartufo bianco da un chilo e mezzo all’Asta del Tartufo nel castello di Grinzane Cavour. Si tratta di una cifra record per un singolo pezzo da quando la manifestazione organizzata ogni anno dall’Enoteca Regionale Piemontese Cavour ha avuto inizio nel 1999.
E se uno studio dell’Università di Torino quantifica in circa 50 milioni di euro l’indotto del turismo in Piemonte durante i soli giorni della Fiera del Tartufo di Alba, è indubbio che fin dai tempi dei Romani chi se lo poteva permettere ha sborsato cifre ingenti per questo fungo sotterraneo.
Un valore, quello del Tuber Magnatum Pico o tartufo bianco, che al Centro Studi Tartufo di Alba attribuiscono a due caratteristiche importanti: la sua non coltivabilità e le proprietà organolettiche estremamente piacevoli.
Non è coltivabile. Il tartufo cresce sotto terra in specifiche condizioni di suolo, clima e in prossimità di alcune piante. Questa vicinanza ha una precisa spiegazione: come tutti i funghi il tartufo non si nutre per fotosintesi clorofilliana, ma assorbe per il suo sviluppo la sostanza organica elaborata dalla pianta servendosi di filamenti molto sottili – le ife – che avvolgono le radici degli alberi. Si tratta tuttavia di un rapporto mutualistico: la sua rete di filamenti assorbe anche acqua e sali minerali presenti nel terreno per trasmetterli a sua volta alla pianta attraverso le radici.
Ha un profumo che da secoli lo rende famoso. Ogni singolo tartufo – raccolto in Piemonte, in Toscana, nelle Marche o in Serbia – ha caratteristiche sensoriali proprie, uniche, con profumi più morbidi o più pungenti che secondo gli esperti spaziano dall’aglio a fieno, terra bagnata, miele, spezie.
Pare che il tartufo abbia sviluppato questo forte profumo proprio per farsi trovare da animali selvatici, maiali, lupi, topi, che estraendolo da sottoterra e mangiandolo favorirebbero la diffusione delle spore nel terreno, che a loro volta potranno sviluppare un corpo fruttifero nuovo.
Una necessità diffusa in natura, la riproduzione, che nel caso del tartufo crea un fungo particolarmente adatto alla cucina: poche lamelle di bianco a crudo, senza cottura o preparazione, possono arricchire anche i piatti più semplici.
Una prelibatezza di cui si parla fin dall’antichità. Quasi duemila anni fa Plinio il Vecchio definiva il tartufo nella sua Naturalis Historia come un “miracolo della natura”. Il motivo? Nasce e cresce senza radici.
Nella stessa epoca il filosofo greco Plutarco di Cheronea teorizzava che il tartufo nascesse da un particolare intreccio delle azioni di acqua, calore e fulmini. Una teoria suggestiva, che spalancò le porte a elucubrazioni ancora più ardite. Così il poeta romano Giovenale racconta di come un fulmine lanciato da Giove vicino a una quercia avesse dato origine al tartufo.
Si tratta a ben vedere di spiegazioni anche fantasiose che si basano su caratteristiche oggettive: la mancanza di radici, fenomeno singolare in un’epoca storica in cui sono sconosciute le patate e altri tuberi, la prossimità del tartufo con gli alberi, l’importanza dell’interazione di diversi elementi – suolo, piante ospiti e clima – per creare un ambiente favorevole alla sua nascita.
Il tartufo descritto da greci e latini non è tuttavia il Bianco d’Alba che conosciamo oggi: è probabile che si trattasse della Terfezia arenaria ancora presente nei terreni sabbiosi del Mediterraneo e del vicino oriente. Di forma simile al tartufo, più grande, ha un profumo e un sapore di gran lunga più blandi rispetto al tartufo bianco. Ricorda la patata, un ortaggio che però sarebbe arrivato in Europa soltanto 1500 anni più tardi. Da qui, è comprensibile che il sapore di questo tubero unico all’epoca e la sua invisibilità in superficie lo abbiano reso prezioso già nell’antichità.
Se il Medioevo non sembra nutrire grande interesse per il tartufo, tra il XIV e il XV secolo ritorna in grande spolvero nelle tavole delle corti francesi il tartufo nero, mentre gli italiani preferiscono il tartufo bianco. Nel Settecento il tartufo bianco d’Alba diventa una prelibatezza tra i signori di tutta Europa e la cerca del tartufo è considerata un divertimento delle corti.
Gli ospiti e gli ambasciatori in visita a Torino sono invitati ad assistere alle battute di raccolta del tartufo: ben presto il maiale, utilizzato per stanare i preziosi tartufi, viene sostituito dal cane, più elegante e meno vorace.
Nello stesso periodo iniziano gli studi scientifici sul tartufo. Nel 1788 il medico torinese Vittorio Pico lo chiama “Tuber Magnatum”, tartufo dei potenti: da qui, il nome del tartufo bianco in botanica diventa Tuber Magnatum Pico. Qualche decennio più tardi il naturalista dell’orto botanico di Pavia Carlo Vittadini ne descrive nella sua “Monographia Tuberacearum” 51 specie diverse e getta le basi dell’idnologia, la scienza che si occupa dello studio dei tartufi.
Siamo ormai nell’Ottocento e il tartufo diventa nelle mani di Camillo Benso Conte di Cavour un dono diplomatico da elargire a potenti internazionali. Una strategia che meno di un secolo più tardi appare diffusa tra i contadini dell’Albese, che usano omaggiare di trifole il medico di famiglia, il veterinario, il notaio o la maestra del paese.
Una strategia che riprenderà anche Giacomo Morra, ristoratore e mercante di tartufi albese che negli anni ’50 promuove l’immagine del Tuber Magnatum nel mondo regalando ogni anno un grosso esemplare a politici e artisti internazionali. Memorabile quello inviato al presidente statunitense Harry Truman nel 1951 del peso di 2519 grammi, seguito negli anni successivi da omaggi a Ike Eisenhower, John Kennedy, Nikita Krushev, Rita Hayworth, Marilin Monroe, Winston Churchill e all’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié.
Ma la fama di Giacomo Morra è legata soprattutto alla creazione della Fiera del tartufo d’Alba. Una manifestazione che nasce ufficialmente nel 1929 dopo che, l’anno precedente, la piccola mostra di tartufi allestita da Giacomo davanti al Savona, il suo ristorante albergo ad Alba, ottiene un grande successo. La Fiera diventa di anno in anno un appuntamento di riferimento per il mercato del tartufo e continua a crescere anche dopo la morte di Morra nel 1963. Negli anni successivi si allarga e diventa un’occasione per promuovere anche gli altri prodotti di Langhe e Roero, soprattutto i vini.
Si tratta di un tema che in anni recenti ha visto crescere la sua importanza, come testimonia la ristorazione d’eccellenza che il territorio del tartufo d’Alba sa offrire oggi; ci permettiamo di approfondirlo con Vincenzo Donatiello, direttore di sala e sommelier del ristorante Piazza Duomo di Alba, che ci offre alcuni consigli di abbinamento di vino con piatti a base di tartufo.
Per i piatti più classici sembrano vincere i vini bianchi, con Soave o Riesling Alsaziano a bilanciare la nota dolciastra e grassa dell’uovo in cocotte con una grattata di tartufo bianco; o con un grande Chardonnay piemontese evoluto ad accompagnare l’aromaticità, la grassezza e la persistenza dei tagliolini al tartufo bianco.
I profumi di un grande Barolo maturo sono consigliati invece per piatti creativi più elaborati e con sapori profondi e persistenti, come un filetto di capriolo con foie gras e tartufo bianco d’Alba.
È con l’ultimo suggerimento che Vincenzo mi stupisce: Tartufo Bianco con gelato alla crema o fiordilatte, o con pera fresca, formaggio e pepe. Un’inusuale versione dolce che rivela come i profumi del tartufo bianco offrano infinite possibilità in cucina. Quale vino in abbinamento? Ovvio, un Eiswein austriaco o tedesco a base Riesling. Mi auguro che Vincenzo non me ne voglia se abbinerò un Caluso passito.
L’edizione 2019 della Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba – edizione numero 89 – è dedicata all’equilibrio fra tradizione e innovazione, esperienza quotidiana ed eccellenza, ingredienti semplici come l’uovo e unici come il Tartufo Bianco e si svoglerà dal 5 ottobre al 24 novembre.

Foto: Davide Carletti – Credits: Ente Fiera del Tartufo

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