Cronache profane di potenza, equilibrio ed eleganza
di Omar Gattuso
“Io amo gli uomini che cadono, se non altro perché sono quelli che attraversano.”
“Tu sei giovane… e non sai che tre nasi son quel che ci vuole per bere il Barolo”, scrive Pavese ne Il Compagno, alludendo alla complessità olfattiva del rosso langarolo.
Chi l’avrebbe mai detto che “la tradizione pone il Barolo come prodotto alla costante ricerca (e volontà? nda) di potenza”? Mentre si è occupati a fare progetti, può accadere d’imbattersi in scoperte inaspettate e, forse proprio perché tali, stupefacenti. Perché nel caso specifico, non è tanto il contenuto a renderla speciale, ma piuttosto la tortuosa via che ha portato a una simile illuminazione.
Metti una sera a cena, poco lontano dal paese omonimo, in un’antica e gloriosa locanda, tra un bicchiere di buon vino e i cavalli di battaglia della cucina piemontese: “Il Barolo è un vino conosciuto, che ha visto accrescere la propria fama per la sua potenza e la sua tannicità”, spiega Claudio, giovane produttore che, con passione e talento, perpetua la tradizione enologica familiare.
Uno degli interlocutori solo qualche mese fa non avrebbe potuto apprezzare pienamente il significato di tale affermazione: formazione esclusivamente (o quasi) umanistica, una forma mentis assetata ma anche allergica a qualsivoglia attività pratica. Ad avvicinarlo fisicamente e mentalmente alla realtà contadina la vendemmia 2012, universo inesplorato e animato da meraviglie quali le fredde mattine settembrine e i roventi pomeriggi, la skyline mozzafiato, l’armonia e l’estremo ordine delle vigne. L’opportunità di condividere: l’odio per le grandinate che rovinano il raccolto e costringono a una certosina pulizia; l’ammirazione e la soddisfazione per i grappoli più belli e maturi; le (subdole) suppliche per qualche goccia di pioggia; la quiete tra i lunghissimi filari.
Ecco la clamorosa rivelazione: come nella migliore tradizione letteraria, anche nel polisemico mondo enologico esiste una querelle tra due differenti approcci e ancora una volta la ragione della contesa è nell’eredità. L’Azienda Agricola Viberti Giovanni, in cui Claudio opera a 360°, ha fatto una scelta precisa: “La nostra cantina ha obiettivi enologici naturalmente differenti rispetto alla tradizione…”. Qualcuno lo interrompe, chiedendo informazioni circa un inedito Kante, uno spumante – si scoprirà in seguito – dallo spettro aromatico piuttosto insolito rispetto al metodo italiano classico: niente crosta di pane, bensì un’esplosione di agrumi con note di coriandolo e cardamomo. Più che una (felice) interruzione, quindi, l’ideale intermezzo per rituffarsi nella querelle: “Se trent’anni fa la ricerca della potenza e dell’astringenza rappresentava non solo la salvaguardia ma anche il plusvalore del Barolo, noi oggi ricerchiamo soprattutto l’eleganza e l’equilibrio del prodotto”.
Anciens o Classiques contro Modernes: da una parte la fiducia cieca o quasi nel passato, fondata sull’idea che la storia abbia già consegnato il miglior Barolo possibile, perfezione raggiunta e insuperabile; dall’altra, la convinzione che i miti possano essere sorpassati e che la futura fortuna dipenda dal grado d’innovazione. Per dirla alla Perrault (paladino dei Modernes), si riconosce la grandezza della tradizione, ma senza inchini “e si può paragonare, senza tema d’essere ingiusto, il secolo di Luigi al bel secolo d’Augusto”.
Con la serata agli sgoccioli, di fronte a qualche bicchierino (di troppo) di Chinato, Claudio rivive così quella magica bottiglia: “Un tuffo nel passato, un momento nostalgico perché dal 2011 quella vigna non c’è più e – se Dio ci accompagna – fino al 2022 non ci ubriacheremo più con il nettare della tenuta della Marchesa Colbert Faletti. Una bottiglia nuda, frutto di un’emozione, la stessa che lega indissolubilmente la produzione, dalla vendemmia fino all’imbottigliamento. Setoso, pulito al naso, acidità barberofila, una freschezza ancora tangibile dopo 22 anni…”.Qualcuno, poco prima, ha afferrato il bicchiere, l’ha portato di fronte al viso e, guardandolo in controluce, ha affermato: “Questo è il colore del Barolo”. E così sia.
C’è ancora tempo, nonostante l’ora e la moderata ivresse, di chiudere il cerchio. La ricerca di Claudio e di tanti ragazzi come lui non è rifiuto delle convenzioni, ma – tornando idealmente a Nietzsche – pulsione infinita di rinnovamento: “Si sente spesso parlare di tradizionalisti e moderni. Trovo che entrambe le definizioni siano obsolete e abbiano poca ragione d’esistere. Un produttore che utilizza metodi di vent’anni fa, a mio parere, non è tradizionalista, ma semplicemente testardo. Sono convinto che il buon senso stia esattamente nel mezzo. La
“Nuove speranze agitano loro le braccia e le gambe, e il loro cuore si allarga. Essi inventano nuove parole: in breve il loro spirito diventerà temerario”. Così parlò Zarathustra. Giovani produttori, non abbiate paura.
Questo articolo ha vinto ex aequo la VI edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Enogastronomia