Lo Zafferano di Caraglio e Valle Grana
di Oscar Borgogno
Se il piccolo paese di Caraglio, ai piedi della valle Grana, è ormai celebre tra gli amanti del buon cibo, questo lo si deve soprattutto all’Aj d’Caraj, una varietà delicata e raffinata di aglio che da anni riscuote grande successo sul mercato alimentare. A quanto pare, però, questo prodotto potrebbe non essere l’unico a poter beneficiare del peculiare microclima di questi luoghi, caratterizzati da temperature fresche ed una forte escursione termica.
Nel 2005, Mauro Rosso, impiegato caragliese di 52 anni, ebbe l’intuizione di tentare la coltivazione dello zafferano sulle colline caragliesi. “Ho iniziato perchè mi incuriosiva come pianta, spiega ora Rosso, e avevo il presentimento che il clima locale potesse favorirne la crescita: in effetti fu proprio così”. Da allora ha proseguito la coltivazione e affinato i metodi di coltura da completo autodidatta. La sua, però, non è mai stata un’attività imprenditoriale: “io non produco a scopo di lucro, ma soltanto per beneficenza e uso personale”.
Tuttavia, sin dall’inizio di questa esperienza Rosso ha sempre tentato di diffondere la coltura dello zafferano regalando migliaia di bulbi in tutta la Granda: “ Purtroppo molti, anche in valle Grana, erano scettici sui risultati di una coltura insolita, temendo che l’impegno richiesto si rivelasse troppo gravoso e dispersivo”.
Per fortuna, nonostante l’iniziale diffidenza, non tutti hanno desistito. Ad esempio il veterinario Lucio Alciati, grande appassionato di prodotti tipici piemontesi e storico protagonista della promozione dell’Aj d’Caraj, si è lasciato intrigare dalle potenzialità di questa pregiata spezia. “Compiendo alcune ricerche sull’aglio, racconta Alciati, ho scoperto per caso che nel 1870 un agricoltore caragliese, Antonio Delpuy, era stato premiato per il proprio zafferano nell’ambito della Prima esposizione agraria-industriale-artistica della provincia di Cuneo”. Ciò testimonia quanto la coltivazione di questa spezia, portata in Europa dalla Cina grazie ai monaci medievali, fosse diffusa nel XIX secolo nella provincia Granda.
Approfondendo le ricerche, Alciati ha poi rintracciato alcune fonti storiche da cui emerge che già nel basso Medioevo la coltivazione dello zafferano era praticata sulle colline del Marchesato di Saluzzo, di cui faceva parte anche il contado di Caraglio. Inoltre Ottavio Gallo, sindaco di Caraglio nei primi anni del ‘900, trattò del Söfran (termine piemontese che indica lo zafferano) nella sua opera 200 piante medicinali della Flora Pedemontana coll’aggiunta dei nomi in vernacolo piemontese, edita nel 1917. “Tutte queste scoperte,prosegue Alciati, hanno fornito allo zafferano caragliese un solido fondamento storico e mi hanno definitivamente persuaso a continuarne l’approfondimento”.
Il primo passo da compiere era cercare di capire se davvero la coltivazione dello zafferano potesse rivelarsi efficiente sulla lunga distanza nel territorio caragliese. La grande peculiarità di ques’area risiede nella forte escursione termica tra il giorno e la notte, tipica del fondovalle, la quale contribuisce a massimizzare quelle caratteristiche biologiche che conferiscono ai prodotti agricoli un sapore più vigoroso e piacevole. Purtroppo le tecniche di coltura che esistevano nel Cuneese si sono perse nell’arco di una generazione durante la prima metà del Novecento, fino a comportarne la totale dispersione. Ed è per questo che nel 2011 Alciati si è recato a Navelli, in provincia dell’Aquila, capitale storica dello zafferano italiano, per procurarsi alcuni bulbi e acquisire dalle cooperative locali le basi per la coltivazione di questa pianta delicata. Lo zafferano (Crocus sativus) ha infatti un ciclo molto particolare: il bulbo si pianta ad agosto e si estirpa a novembre; ha una fioritura autunnale, a metà ottobre, contrariamente alla maggior parte delle altre piante; richiede un territorio collinare, più esposto ai raggi solari. Inoltre, la posizione orografica della valle Grana, molto stretta e a monte rispetto ai grandi fiumi, permette di mantenere i terreni privi di residui chimici di carattere industriale e antropico, come invece accade nei territori alla foce del Po, migliorando la qualità del suolo.
Questa serie di fattori genera nello zafferano caragliese un tasso più elevato di crocina, il carotenoide che determina un intenso colore giallo e un sapore più vigoroso. La sua particolarità è stata ufficialmente riconosciuta anche dalla Giunta Regionale del Piemonte, che con un decreto del 2013 ha conferito allo zafferano di Caraglio e valle Grana la qualifica di Prodotto Agritradizionale del Piemonte (PAT). “Un importante primo balzo verso traguardi ambiziosi (Dop o Igp)”, si augura Alciati.
Ad ora sono circa una decina le realtà che si dedicano alla coltivazione dello zafferano tra i comuni di Caraglio e Bernezzo. Per produrre un chilogrammo di zafferano sono necessari circa ottantamila bulbi, che corrispondono ad una giornata di terreno (un terzo di ettaro circa, ndr). Sul mercato, un chilo di zafferano è quotato a circa trentamila euro.
Dopo la raccolta dei fiori a metà ottobre, si estraggono gli stimmi uno ad uno, poi si mettono in scodelline ad essiccare e infine si dividono in pacchetti da 60 stimmi, che sono sufficienti per quattro porzioni di riso. Questi pochi passaggi non sono però così semplici come appaiono: la lavorazione richiede moltissima cura e attenzione.
Finora la produzione è stata così ridotta da non permettere alcun utilizzo su ampia scala del Söfran caragliese. Tuttavia il giovane cuoco caragliese Michele Chiapale (che col suo Risotto alla Caragliere ha vinto la II edizione del Premio Giovani Chef Piemonte, ndr) è ottimista sulle sue potenzialità: “Io ho avuto la fortuna di poterlo utilizzare insieme all’Aj d’Caraj affumicato per realizzare un risotto completamente alla caragliese”. A suo parere, da un punto di vista prettamente culinario, la differenza tra il Söfran e il comune zafferano è immediatamente percepibile se vengono seguite le procedure corrette. Inoltre il pistillo a volte potrebbe non sciogliersi completamente, ma questo sarebbe un indicatore di genuinità, che non danneggerebbe minimamente la qualità del piatto, anzi donerebbe al piatto un tratto peculiare che renderebbe il Söfran riconoscibile anche alla vista – il Söfran, infatti, non si vende macinato.
Il grande scoglio da superare consiste nella disponibilità del prodotto: “fino a quando non ci sarà una produzione discreta sarà impossibile pensare di impiegarlo nella ristorazione”. A questo proposito, secondo Alciati, forte della sua esperienza con il Consorzio di tutela dall’Aj d’Caraj, per poter avviare su scala imprenditoriale la coltura dello zafferano è necessario che i coltivatori interessati si organizzino in modo da aiutarsi vicendevolmente nel lancio e promozione del Söfran caragliese. Come per ogni novità, bisogna superare una barriera di scetticismo popolare e i produttori devono investire sia per acquisire le tecniche di coltivazione e lavorazione sia per la promozione.
Se da un lato questo può sembrare l’unico modo concreto per dare un futuro ad una coltura ricca di potenzialità, dall’altro lato questa concezione dell’attività agricola è anche rivoluzionaria. “Finalmente esperienze come quella dell’Aj d’Caraj e del Söfran potrebbero contribuire a cambiare l’approccio con cui l’agricoltore si pone nel mercato”, spiega Alciati. “Non più un soggetto che deve subire l’imposizione di un prezzo per una merce seriale, ma un imprenditore che offre un prodotto ricco di peculiarità e tratti specifici, potendo quindi decidere con più autonomia il prezzo del proprio lavoro”.
Sarebbe un modo per passare da un’idea di agricoltura debole che va sussidiata ad un’imprenditoria innovativa che sappia riscattare la dignità del proprio lavoro.