Dalla Vaìna alla strega di Blair
l’Ossola come caso studio sulle leggende e il folklore orrorifico
di Luca Ciurleo
“Vai e non toccare più né in cielo né in terra!”
È con questa maledizione, poche e forti parole pronunciate da una donna esasperata dalla figlioletta piangente, che nasce la Vaina, forse la “strega” più terrorizzante e più singolare del vasto patrimonio folklorico della cultura ossolana.
L’Ossola, il lembo di Piemonte che si incunea nella Svizzera germanofona è un territorio che, grazie ad una sistematica opera di riscoperta e valorizzazione del patrimonio folk tradizionale, rappresenta un importante caso di studio e permette di analizzare le leggende – e le loro permanenze – a livello antropologico. Leggende che, spesso, sono poco più di un brevissimo racconto: “Si narra che, di notte, a Premosello, ci fossero cortei di morti” o “Nelle le notti di tempesta si sentivano urla di animali feroci, erano le cacce diaboliche, i non morti che uscivano guidati da un demone”.
Parlando di leggende bisogna smontare uno stereotipo molto in voga, soprattutto in questo ultimo periodo in cui assistiamo ad un progressivo “ingentilimento” ed edulcorazione dei loro aspetti più perturbanti (e penso ai vampiri di Twilight e dei suoi epigoni, che hanno perso l’aspetto orrorifico a favore di una svenevolezza completamente estranea all’archetipo leggendario cui fanno riferimento). Le leggende, i racconti di streghe, di fate, di morti che ritornano – i revenant, non gli zombie oggi tanto di moda – non sono “racconti per bambini” così come li intendiamo oggi. Servivano ad insegnare qualcosa anche agli adulti: ad esempio, a non avventurarsi in zone pericolose o potenzialmente tali in alcune ore del giorno o della notte. Così non si esitava ad arricchire questi racconti di particolari truculenti. Se vogliamo, avevano lo scopo di creare una geografia immaginaria che si sovrapponesse a quella reale. Perché il terrore e la paura aiutano a creare dei tabù: nelle grotte di Sambughetto, in valle Strona, non si entra perché ci sono le streghe. Ovvero il rischio, concreto, di perdersi nei labirinti e crepacci sotterranei.
I boschi e le montagne sono l’ambientazione tipica dei racconti del terrore, poiché sfruttano la paura atavica dello smarrirsi. Pensiamo a come questo stereotipo sia presente nei moderni film horror e al terrore suscitato da film quali The Blair witch project, dove l’aspetto forse più perturbante era l’impossibilità dei protagonisti di uscire dalla foresta. I boschi vanno benedetti, antropizzati e santificati con cappellette votive sparse su tutto il territorio, con figure di santi o di Madonne intenti ad uccidere e sottomettere i serpenti, simbolo della natura selvaggia e pericolosa.
La già citata Vaina, ad esempio, si manifesta come un vortice, un cumulo di stracci che ruotano vorticosamente emettendo lamenti di bambino e appare nottetempo nei boschi dopo i rintocchi dell’Ave Maria, suono che un tempo sanciva l’inizio della notte, il periodo della giornata in cui non si poteva uscire di casa. Non essere in casa dopo i rintocchi dell’Ave Maria avrebbe portato infauste conseguenze, ci si sarebbe potuti imbattere nelle creature maligne che abitano il mondo soprannaturale.
Notte e boschi i due topòi entro cui si muove il maggior numero di leggende del territorio ossolano, che può essere visto come l’esempio del folklore alpino.
Il timore della notte, nelle veglie – vere e proprie “università contadine”, luoghi dove avveniva la trasmissione dei saperi tradizionali – era un motivo ricorrente: quasi tutte le figure negative appaiono al buio, o meglio in assenza della luce solare, vista come simbolo del bene.
Questo topòs è ancora oggi molto sfruttato: la “Notte sul Monte Calvo” tratta da Fantasia di Walt Disney è uno degli esempi più pop di questa rifunzionalizzazione e riproposizione delle leggende e dei loro archetipi. Con l’allungarsi delle ombre i diavoli si risvegliano, le streghe ed i demoni si uniscono in sabba sfrenati ed orgiastici, i morti e gli spiriti risorgono dalle loro tombe, lanciandosi in sfrenate cacce diaboliche tra cani fantasmi e scheletri di cavalli. Ma l’arrivo dell’alba, il suono di una campana in lontananza e la processione sul limitare del bosco sconfiggono i demoni riportando il mondo alla consueta tranquillità.
Nel bosco vivono anche esseri positivi: gli uomini selvatici, senza vestiti e coperti di peli o foglie che insegnano agli alpigiani a produrre il formaggio ma vengono scacciati, spesso in malo modo, dagli uomini.
Le leggende testimoniano anche la chiusura della cultura contadina, essenzialmente orale, verso ciò che oggi consideriamo cultura “alta”: il medico o il prete, quelli che conoscevano il “latinorum” di manzoniana memoria, erano anche i “fisici”, ovvero dei “mutaforma” in grado di cambiare le proprie fattezze. La storia è molto semplice e si ripete attraverso un archetipo molto ben codificato: di notte una persona trova il passaggio sbarrato da un animale malefico (un cagnaccio, un gatto, un maiale o anche un caprone). La situazione si ripete per più notti, fin quando il malcapitato non decide di difendersi con quello che trova vicino: un bastone, un sasso, o anche un fucile con cui ferisce l’animale in un punto del corpo. Il giorno seguente riconoscerà la medesima ferita inflitta all’animale sul corpo di una persona, segno evidente che si tratta di un fisico.
Parlare di leggende e studiare le leggende significa anche scardinare alcuni stereotipi. Ad esempio l’equivalenza tra strega e personaggio brutto e malevolo, contrapposto alla fata, bella e buona. Esistono infatti diverse storie di fate fortemente negative, come le regine dei ghiacci che non esitano ad imprigionare il viandante di turno; o di streghe brutte fisicamente ma di indole buona che aiutano coloro che si perdono nei boschi. O ancora le figure delle Fenettes, entità soprannaturali che proteggono i boschi dalle incursioni degli uomini. E poco importa se, per salvare la natura sono costrette ad uccidere: uno “spirito ecologista” ante litteram, frutto non tanto dell’interesse verso la sostenibilità ambientale quanto piuttosto del rapporto di rispetto tra uomo e natura tipico della civiltà contadina tradizionale, che creava il suo calendario rituale basandosi sui ritmi dell’agricoltura e del bosco.
Streghe e fate sono facce della stessa medaglia, eredi delle antiche druidesse, portatrici di quei culti precristiani – spesso iniziatici – ancora sopravvissuti anche se non in forma rituale.
Le leggende, oggi riscoperte e reinventate sistematicamente in un intrigante “bricolage contadino” (ovvero il riciclo ed il riuso di tutto, riducendo al massimo lo scarto, il dumping), rispecchiano i nostri timori e costruiscono il nostro mondo immaginato. Grazie alle leggende abbiamo imparato a non accettare dolci o mele dalle vecchine nel bosco, a non avventurarci in luoghi pericolosi come ponti del Diavolo o grotte delle streghe, a tenerci lontani dai boschi e dai sentieri non battuti. Un imprinting culturale che oggi l’industria cinematografica horror recupera a piene mani.
Perché The Blair Witch Project, gli zombie o l’entità maligna che infesta la casa (magari costruita su un cimitero indiano) non sono che l’equivalente immateriale del coltello costruito dal contadino utilizzando un pezzo di falce rotta…
Questo articolo ha ricevuto il secondo premio alla XI edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura
Foto gentilmente concesse da Studio Tancredi