Cent’anni di lavoro per le pari opportunità culturali
di Marina Rota
Una mattina di primavera del 1911 la giovane insegnante Lisetta Ciaccio cullava pensieri nuovi, mentre percorreva i soliti passi verso la scuola normale Maria Laetitia istituita 30 anni prima dal Ministro Casati per preparare le ragazze a diventare maestre delle nuove generazioni italiane. Diventare maestra costituiva l’unica via di riscatto culturale per le adolescenti di allora, la cui preparazione era limitata al necessario per diventare brave mogli e madri, per assolvere gli impegni domestici e quelli mondani: ricevere con grazia, sostenere una conversazione che non toccasse argomenti impegnativi (politici, culturali, sociali).
Eppure, pensava l’insegnante Motta Ciaccio, molte sue allieve avrebbero avuto i numeri per diventare medici, ingegneri, magistrati… “Signorine, oggi via i libri, voglio parlarvi di un mio sogno, che spero divenga un poco anche il vostro” esordì l’insegnante, e con una chiacchierata di un’ora ottenne dalle ragazze l’impegno che al termine delle vacanze si sarebbe creata un’associazione di sole donne.
Così, il 20 dicembre 1911, un manipolo di insegnanti e scrittrici si riunì per stendere lo statuto di una nuova associazione apartitica e aconfessionale, tesa a riscattare le donne dalla sottomissione che subivano da secoli: un’associazione che venne denominata Pro Cultura Femminile come contraltare alla Società di Cultura Maschile sorta nel 1898 per merito di scienziati e intellettuali come Cesare Lombroso, Gaetano Mosca, Luigi Einaudi.
Le prima preoccupazione delle prime 242 socie fu di istituire una biblioteca con 150 volumi. Il libero accesso delle ragazze a libri e giornali costituiva ai tempi un’assoluta novità: come sottolineava una delle più rappresentative presidenti dell’associazione, Augusta Grosso Guidetti, “rarissime erano le donne che frequentavano i licei classici e l’università, perché preparate a ruoli che non richiedevano cultura”; le continue prescrizioni e preoccupazioni di abbigliamento e decoro dalle quali erano perseguitate rendeva complicato, se non riprovevole, frequentare le biblioteche pubbliche o altri intrattenimenti culturali.
La biblioteca della Pro Cultura, molto amata e frequentata dalle socie, divenne presto luogo d’incontro, salotto culturale, sala da tè (a prezzi modici: il tè a 25 centesimi, i biscotti a 2 centesimi ognuno) e si contraddistinse subito per la straordinaria scelta di quotidiani italiani e stranieri – allora letti solo da uomini – e la qualità dei volumi, con vaste sezioni dedicate all’arte, alla letteratura italiana e straniera.
Sin dall’inizio, infatti, la decisione delle socie fu quella di non indirizzarsi verso le edizioni popolari, ma verso le migliori, sia dal punto di vista estetico, sia da quello della cura editoriale. Perfino il prof. Franco Simone, ordinario di Francese all’Università di Torino, scoprì che la Pro Cultura possedeva testi ed edizioni preziose, introvabili anche nelle biblioteche universitarie francesi.
Le socie si proposero di creare nuclei librari in altre istituzioni: arricchirono la biblioteca in braille dell’associazione che assisteva i ciechi, (il cosiddetto “madrinato della luce”) e istituirono biblioteche per le detenute e per le pazienti degli ospedali psichiatrici.
Alla biblioteca, interesse centrale dei primi anni di vita, si affiancarono tante altre iniziative: cicli di lezioni, dibattiti con esperti delle più varie discipline, presentazioni di opere teatrali, visite a mostre d’arte; iniziative così numerose e diversificate che dal 1914 – anno in cui la sede si trasferì in via Assarotti 11- si iniziò a pubblicare un bollettino mensile col resoconto delle attività sociali, consigli di lettura, recensioni di libri, commenti sul clima culturale e sociale; bollettini che ora, rilegati in volumi blu, costituiscono un documento inestimabile del glorioso percorso della Pro Cultura. Le socie a poco a poco provarono la gioia di uscire di casa, riunirsi, condividere pensieri, esperienze, letture, e anche le prime gite sociali ai laghi e in montagna, per le quali, oltre a indicazioni sull’abbigliamento (stivaletti chiodati, sottana e giacca di lana pesanti, cappello leggero senza guarnizioni…), si prodigavano anche singolari consigli sull’alimentazione: “per i pasti al sacco provviste molto parche per non gravarsi di troppo peso e perché quando si cammina a lungo conviene mangiare pochissimo”.
Queste attività rallentarono durante il primo conflitto mondiale, quando invece molto fece la Pro Cultura per aiutare le famiglie in difficoltà. Nel 1914, in previsione dell’entrata in guerra, le socie furono invitate con una circolare a frequentare i corsi della Croce Rossa per rendersi utili, cosa che fecero nella scuola Maria Laetitia trasformata in convalescenziario. La Pro Cultura fornì alle socie i modelli degli indumenti a maglia destinati ai soldati e la lana per la loro realizzazione e quindi, nel bollettino dell’ottobre 1915, fu presentata l’iniziativa dello scalda rancio, idea suggerita dai reduci delle guerre coloniali inglesi: un rotolino di carta imbevuta di paraffina o di cera, che, acceso, serviva ai soldati di prima linea per scaldare il rancio. “Pel suo babbo, che in trincera/sfida il vento e la bufera/Gilda fa solerte e gaia/scaldaranci a centinaia”, recitava una filastrocca del Corriere dei Piccini dell’epoca. Le socie procuravano lavoro alle donne disoccupate e assicuravano assistenza ai loro piccoli nelle “stanze per i bambini”.
Nel 1919 la Pro Cultura creò una prestigiosa Sezione Musicale che attraversò tutta la vita associativa con audizioni, corsi, concerti nei saloni delle varie sedi; magari, in certi periodi, con organici ridotti, ma sempre con prestigiosi solisti (come Benedetti Michelangeli) e programmi raffinati. Quando la presidenza dell’associazione decise di stampare un libro per illustrare questa attività, Massimo Mila accettò immediatamente di scriverne una prefazione, in cui si riferì alla Pro Cultura come “coraggiosissima società, sorprendente, fin dagli inizi, per altezza di intendimenti culturali e larghezza di vedute storiche”.
Per festeggiare i primi dieci anni di attività, la Pro Cultura portò a termine un’impresa straordinaria: far edificare una scuola a Sant’Angelo di Cetraro, sperduto villaggio sui monti calabresi dove l’attivissimo maestro Arcangelo Verta, mutilato di guerra, aveva scelto di insegnare, tenendo le lezioni nelle stalle. Foto d’epoca lo mostrano, pallido di commozione, davanti alle 23 eleganti signore arrivate da Torino che si inerpicarono per chilometri di sentieri sconnessi per inaugurare la scuola “Torino”.
L’anno più doloroso della Società fu il 1938, quando scomparvero i nomi delle socie israelite, che vi costituivano un gruppo numeroso e attivo. La presidente Lea Mei si trovò nella stessa terribile situazione di direttori e presidi costretti a distinguere gli ariani dai non ariani; e durante tutti gli anni del fascismo, con un’opera di intelligenza diplomatica che non le risparmiò dolorose rinunce, la Mei riuscì ad aggirare abilmente le direttive fasciste, pur evitando atteggiamenti di aperta resistenza, per mantenere in vita la società.
Quando, negli anni ’40, i tempi si fecero bui, la biblioteca venne precauzionalmente sfollata a Ceres e a Torre Pellice dove si erano rifugiate tante socie: il patrimonio librario venne cosi salvato, ad eccezione dei duemila volumi bruciati durante il bombardamento della sede di via Mercantini, rimasta coraggiosamente aperta. Nel giugno del ’45 la presidente Agosti Garosci varò un “Corso di Cultura Politica” – prima iniziativa del genere – per orientare le socie alla nuova situazione del Paese e informarle sul programma di ogni partito, preparandole così ai nuovi compiti che le attendevano in occasione della concessione del voto (fra i conferenzieri, Norberto Bobbio per il Partito d’Azione e Franco Antonicelli per il Partito Liberale).
Si moltiplicarono intanto altre iniziative: nel ‘48 si inaugurò la Sezione Teatrale; nel 1964 fu istituito il Cineclub, con la collaborazione di Maria Adriana Prolo; nel 1967 nacque la scuola di bridge, la cui idea nacque in occasione di una conferenza di Luigi Firpo (così appassionato di questo gioco da aver codificato un sistema licitativo, il “Fiori Torino” che caratterizzò il bridge torinese per quarant’anni).
Nel 2002 la Pro Cultura fu costretta ad abbandonare i locali della sede di via Accademia Albertina, i cui costi erano divenuti insostenibili. Sfumata la possibilità di una sistemazione alternativa al Circolo degli Artisti, l’associazione si ritrovò senza sede pur continuando a svolgere, sotto la presidenza di Maria Vittoria Levera di Maria, la sua attività divulgativa nella sala conferenze dell’Archivio di Stato di piazza Castello. Come sempre la prima preoccupazione delle socie si concentrò sulla biblioteca. Allo stato attuale le 43.000 opere della Pro Cultura Femminile, un patrimonio librario unico per un’associazione privata, sono conservate nella Biblioteca Civica della città di Torino, mentre i documenti che testimoniano la sua attività sono stati trasferiti nel caveau dell’Archivio di Stato.
Ma il fiore all’occhiello della Pro Cultura furono le conferenze: fra i relatori troviamo Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura del 1913, la cui conferenza del 1926 fu tradotta dal prof. Carlo Formichi, insigne orientalista dell’Università di Roma. L’arrivo di Tagore col suo seguito nella nuova sede della Pro Cultura in via Assarotti costituì un evento straordinario del quale a Torino si parlò e scrisse a lungo. Negli anni si susseguirono i più noti artisti, letterati, divulgatori: Giuseppe Ungaretti con una conferenza su Giacomo Leopardi; Ildebrando Pizzetti che disquisì sull’alchimia fra musica e parole nell’opera lirica; Felice Casorati in dibattito con Francesco Arcangeli e Albino Galvano; Carlo Mollino; Franco Antonicelli, che commentò l’opera di Umberto Saba; Lalla Romano con “Le parole tra noi leggere”; Massimo Mila con una memorabile lettura della Nona Sinfonia di Beethoven, e poi ancora Tullio Regge, Sergio Pininfarina, Gianni Vattimo. Nel 1970, Rita Levi Montalcini tenne una conferenza sul tema “L’ascesa e l’attuale crisi scientifica negli Stati Uniti”. La Levi Montalcini fu socia della Pro Cultura Femminile fin da adolescente, così come la sorella Anna e la gemella Paola. Secondo l’abitudine dei tempi, mentre il fratello Gino fu iscritto al liceo classico – pur non essendo il primo della classe come le sorelle – le ragazze furono indirizzate al “liceo femminile” che non consentiva l’accesso all’università. Il padre ingegnere, che si definiva libero pensatore e suggeriva alla piccola Rita di rispondere a sua volta “sono una libera pensatrice” a chi le poneva domande sulla sua religione; quell’uomo aperto e colto, orgoglioso che la figlia Paola si dedicasse alla pittura con la guida di Felice Casorati e diventasse a sua volta apprezzata artista, era schiavo di quella tradizione misogina che considerava le donne esseri meno portati allo studio e si oppose per anni al desiderio di Rita di iscriversi a Medicina. Quando alla fine l’austero genitore cedette (“Non te lo impedisco, anche se ho dubbi sulla tua scelta”), Rita ottenne la massima votazione alla maturità classica e si iscrisse a Medicina sotto la guida severa del prof Levi, (che “allevò” ben tre premi Nobel): minuta, più vecchia dei compagni, a causa degli anni di battaglia per ottenere il consenso paterno allo studio: un diritto per cui aveva lottato anche la Pro Cultura, senza la quale, forse, l’Italia avrebbe un premio Nobel in meno.
L’intelligente attività della Pro Cultura Femminile, che ha festeggiato i suoi primi 100 anni, ha lasciato tracce profonde in tutti i settori sociali, non solo nelle loro componenti femminili, e non solo a Torino, città antesignana nel percepire l’esigenza di una “pari opportunità” della quale ancora tanto si discute.
In ogni periodo, in ogni circostanza, divulgando cultura anche in tempi di guerra, la Pro Cultura ha saputo dare instancabile significato alle parole di Oriana Fallaci: “Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non finisce mai”.