il Museo di Fisica dell’Università di Torino
di Andrea Di Salvo
Dal 2009 i locali universitari del Dipartimento di Fisica di Torino, in via Pietro Giuria 1, ospitano il Museo di Fisica. Bisogna fare chiarezza da subito: non si tratta di un museo canonico, non c’è un percorso da seguire. Esso si estende a tratti discontinui tra i corridoi e gli uffici dell’Istituto, raccogliendo in diverse vetrine circa 300 strumenti di misura. Tra questi, i più antichi sono stati ereditati dal Gabinetto di Fisica dell’Università, situato in origine in via Po e nato agli inizi del XVIII secolo con l’acquisto delle prime macchine d’ausilio per l’insegnamento della fisica al figlio di re Carlo Emanuele III. L’abate Nollet, chiamato da Parigi a tale scopo, giunto al termine del suo mandato invitò il sovrano a donare gli strumenti all’Università. Si andò così a formare il nucleo originale della collezione.
Attraverso gli inventari, il primo dei quali risale alla seconda metà del Settecento, è stato possibile identificare i diversi pezzi acquisiti dai laboratori nel corso del tempo e catalogare un consistente numero di essi. A dirlo è la professoressa Alberta Marzari Chiesa che ha seguito e curato la nascita del Museo: “Tutto è partito dal Direttore della Biblioteca di Fisica Michele Ceriana Mayneri che, confrontando gli strumenti che c’erano in giro con quelli elencati negli inventari e vedendo gli armadi pieni di strumenti, ha iniziato a interessare un po’ di persone perché qualcuno si desse da fare a recuperare questi strumenti. E così è capitato che ne avesse parlato con me. Era l’epoca in cui si celebravano i 600 anni dell’Università di Torino e c’era stata una mostra (quella per i 150 anni della Facoltà di Scienze). Quasi per caso ho iniziato a collaborare con lui”.
Ha quindi cercato uno studente che facesse una tesi sull’argomento: “ Mi è andata bene, perché l’ho trovato. Questo studente ha cominciato a catalogare alcuni pezzi. La cosa più importante è proprio la catalogazione degli strumenti. Notate che questi erano stati tutti disinventariati nel 1952-’53 e, per fortuna, il lavoro di smaltimento dei pezzi sarebbe stato molto pesante. Per cui – io credo più per pigrizia che per altro – questi strumenti sono rimasti negli armadi e nei magazzini”.
Mentre lo studente catalogava il primo centinaio di apparecchi è stato necessario iniziare a chiedere finanziamenti. Dal fronte universitario si è riusciti a ricevere qualche fondo a disposizione per la ricerca storica. Anche la Regione si è dimostrata interessata al progetto, finanziando la costruzione di nuove vetrine espositive, quelle del pianerottolo del primo piano. Ha inoltre provveduto a sostenere il restauro delle vetrine esistenti, alcune delle quali erano fatte apposta per l’esposizione di strumenti mentre altre erano dei semplici armadi a vetri. Al termine dell’attività dello studente (che dopo la tesi, vincendo una borsa di studio di un anno, è riuscito a continuare nel suo lavoro) erano stati schedati ben 200 pezzi.
“Naturalmente tutto questo ha preso degli anni ” precisa la prof. Marzari riferendosi al Museo nel suo complesso. Al tempo infatti era Direttore del Dipartimento di Fisica sperimentale, con una partecipazione a un esperimento di fisica delle particelle. Dopo la pensione, nel 2006, si è dedicata a tempo pieno alla catalogazione. Oggi si contano 700 pezzi. Questo importante risultato è stato raggiunto anche grazie al prezioso contributo di due collaboratori: il dott. Ciro Marino e un ricercatore pachistano, Mohammad Taj (anch’egli in pensione, adesso). Il primo in particolare ha provveduto a scrivere il programma di catalogazione in uso presso il Museo perché “ non esisteva, non era disponibile un programma che rispettasse le richieste dei musei nazionali italiani. Esistono dei formati per le schede che uno deve compilare e la scheda è la stessa per un piccolo strumento di nessun valore e per le statue di Michelangelo. Quindi sono delle schede che hanno dentro una quantità di informazioni enorme perché devono andare bene per tutti. Comunque, soprattutto per i musei scientifici, la cosa non era messa a posto. Allora il dott. Marino si è fatto dare il formato della scheda e ha scritto un programma che è quello che usiamo sempre, anche adesso. Naturalmente il programma negli anni è stato modificato e migliorato. Probabilmente verrà adottato dall’ASTUT che è l’Archivio Scientifico e Tecnologico dell’Università e secondo noi funziona bene. Non è riconosciuto ufficialmente come un programma per la compilazione di queste schede, ma spero che lo possa essere in futuro”.
Non sono stati ricevuti finanziamenti per la pulizia dei pezzi e gli strumenti privi di alcune parti sono rimasti tali, senza alcuna operazione di restauro. Fanno eccezione solo una bottiglia di Leyda, avente il vetro rotto, e uno strumento i cui pezzi andavano semplicemente attaccati.
L’idea che si è andata formando nel tempo è stata quella di rendere di nuovo funzionanti alcuni strumenti, ma non è stato possibile per la mancanza di un adeguato sostegno economico. Così come non si è potuta concretizzare una parte più didattica, con la realizzazione di alcuni “ modelli che copiassero gli strumenti antichi, perché gli insegnati delle scuole ci hanno sempre detto che un museo in cui si guardano gli strumenti non serve. Servirebbe invece un museo in cui gli studenti possano usare gli strumenti. Con quelli che abbiamo non è possibile perché, soprattutto le parti elettriche, sono tutte ossidate o rotte. Quindi in questo momento si guardano e basta”.
Ad ogni modo, il Museo raccoglie pezzi davvero degni di nota sia per l’età delle apparecchiature, sia per la loro importanza storica. Un esempio notevole è il Motore di Botto. È uno dei primi prototipi, ancora funzionante, di motore elettrico. Progettato dal prof. Giuseppe Domenico Botto, non era molto efficiente, poiché produceva un moto oscillatorio mentre era in funzione (solo con Galileo Ferraris si sono fatti importanti passi in avanti anche nella stabilizzazione del moto). Il motore quindi non è stato usato come tale, ma possiede un’importanza storica in quanto uno dei primi. Questo strumento è quello originale, con le parti elettriche in buono stato di conservazione (recentemente ha mostrato il suo funzionamento a Settimo Torinese, in una mostra dell’Iveco). È stato costruito dal torinese Enrico Federico Jest, che insieme al nipote Carlo realizzò nella seconda parte dell’Ottocento molte delle apparecchiature sparse ora in diverse università italiane e europee.
Ormai già da tre anni non si ricevono più fondi né dall’Università, né dalla Regione. La professoressa riflette sul fatto che “ probabilmente, se ci fosse un progetto molto grande, potrebbe anche passare qualcosa. Ma noi non abbiamo le forze per farlo, siamo solo in tre”.
Solo in tre, ma ci sono ancora parecchi strumenti da catalogare. Circa cinque anni fa sono stati sgombrati tutti i locali dell’interrato che ospitavano il sincrotrone, una macchina costruita negli anni ’50 del secolo scorso e usata per fare ricerca. All’incirca dagli anni ’70 non è più stato impiegato, trasformando il locale in un magazzino disorganizzato. Sgombrandolo, sono stati (ri)trovati moltissimi strumenti in uso tra gli anni ’30 e ’50. Anche quelli vanno conservati, ma per il momento rimangono ordinati in uno scaffale in attesa di essere catalogati. È un po’ come tenere la storia in freezer. Perché anche se le vicende di ogni singolo pezzo possono rimanere sconosciute (non sempre gli inventari sono completi) globalmente essi delineano la storia dell’Istituto perché legati alle ricerche e alle competenze dei professori che si sono susseguiti nel tempo.
Dopo tutto questo, perché venire a visitare il Museo? “ Beh, dipende dai gusti. Ci sono quelli che si interessano e ci sono quelli che non si interessano. Alcuni stanno davanti alle vetrine e sono entusiasti, altri passano e vanno via. Io, su certi strumenti, resto veramente stupita. Per esempio su questo piano c’è quel grande cerchio (si riferisce al Grande cerchio di Brunner) che è un oggetto pesantissimo, ma ha un sistema di contrappesi e degli ingranaggi – notate che è dell’inizio dell’Ottocento – che gli permettono di muoversi senza nessuna fatica in tutte le direzioni. Le cose le costruivano veramente bene! Ecco, io difronte a queste cose mi stupisco. Poi ci sono persone che pensano che tutto questo lavoro non abbia senso”.
Forse sarebbe il caso di lasciarsi stupire a propria volta, visitando questo Museo negli orari di apertura del Dipartimento e senza nessun altro costo se non quello di salire e scendere le scale per scoprire le varie vetrine e il loro contenuto. Il Museo è pensato anche per chi non può recarvisi di persona, garantendone una visita virtuale presso l’indirizzo web www.museodifisica.unito.it.
Foto di Filippo Segato