Marcello Trentini, chef stellato, si definisce “narratore dell’evoluzione di Torino”. Ma ricorda che la creatività nasce dalla disciplina
Intervista di Lucilla Cremoni
Lunghi dreadlocks che un elastico raccoglie in cima alla testa, barbetta a punta, pantaloni mimetici: chissà quante volte a Marcello Trentini, alias Magorabin, avranno detto che più che uno chef stellato sembra un tipo
uscito da un centro sociale. Presa dalla chiacchierata ho dimenticato di domandarglielo. Ma poi, dove sta scritto che aspetto deve avere uno chef stellato? E soprattutto, chissenefrega?
Il suo peraltro è il tipico caso di apparenza che inganna: l’aspetto sarà poco convenzionale, ma attenzione a non confondere “alternativo” e “improvvisato”: “I ragazzi vengono in stage da me convinti di fare la cucina creativa, e la mia frase è sempre la stessa: mumènt, tu sei venuto qui perché facciamo cucina creativa? Guarda che tu stai qui sei mesi, e i primi tre li passi a fare agnolotti, battuta al coltello, tonno di coniglio, carpione. Quando avrai la tecnica per fare un brasato a occhi bendati ti faccio fare qualcos’altro. Molti a fare qualcos’altro non ci arrivano nemmeno, perché in tre mesi non fai una sfoglia all’uovo perfetta, i plin tutti uguali eccetera. Io stesso, per arrivare alla filosofia che sto mettendo in pratica oggi, sono passato attraverso vent’anni di cucina classica. Non per niente qui continuiamo a servire alla carta un 75% di cucina “mia”, contemporanea, di contaminazione, ma un 25% restano i grandi classici della cucina torinese, perché noi cuochi siamo i difensori delle tradizioni. In questo stimo molto Massimo Bottura che dice: la tradizione non dev’essere vista con un occhio di nostalgia ma con lo sguardo critico di sapere che c’è, esiste, bisogna preservarla ma anche costruire qualcosa per andare avanti”.
Cominciamo dal dessert?
Il discorso sulla disciplina e la tradizione mi fa venire in mente quello sulla pasticceria da ristorazione, alla quale finalmente anche in Italia si sta riconoscendo un’identità propria – almeno in una certa fascia di ristoranti – mentre la prassi era, ed è tuttora, quella di servire dessert che sono sostanzialmente le stesse cose che si trovano in pasticceria o versioni di dolci casalinghi. Tant’è vero che non c’è un termine italiano per indicare la mansione di chef pâtissier o pastry chef. Quindi, se ti va, cominciamo dalla fine.
“Ne parlavo proprio ieri sera con Sara, la mia pasticcera. Lei viene da una famiglia di pasticceri e, come sovente capita ai figli d’arte, ha avuto il rigetto. Ha studiato al liceo linguistico, poi è andata a Manchester, e ovviamente si è trovata un lavoro. Volente o nolente, un po’ di pasticceria la sapeva fare, quindi era molto più logico che si mettesse a riempire quattro cannoli piuttosto che a portare i piatti ai tavoli. E ha scoperto quanto le piaceva. Ma si è appassionata alla pasticceria da ristorante, che è un lavoro completamente diverso dalla pasticceria di laboratorio, e lì è cominciata la sua carriera. Poi ha fatto un sacco di esperienze ed è arrivata da noi con un bagaglio importante. Ma sempre di impostazione classicheggiante. Ci siamo trovati subito molto bene perché lei voleva fare una pasticceria creativa e io avevo bisogno di una pasticcera, vale a dire di una scienziata. In pasticceria l’approssimazione, il q.b. il pizzico, il tot non sono possibili. Per avere una crema inglese di una certa densità ci vogliono certe dosi e non altre, se servono 322 grammi di zucchero non devono esere 325 o 320. Però, se le basi sono scientifiche, l’assemblaggio degli ingredienti e degli elementi deve dare un piatto creativo, lontano dalla pasticceria classica.
Lei è curiosa di avere esperienze altrove, e io l’ho dissuasa dall’andare in certi posti. Perché? Perché nel mondo della ristorazione ci sono due grandi correnti. Una è la corrente di una pasticceria più classica ma a mio avviso troppo impegnativa, per quantità di zuccheri e tipologia di servizio, per essere un dopo-pasto. Ci sono prodotti di pasticceria che sono straordinariamente buoni e golosi, ma vanno bene lontano dai pasti: io stesso a volte la domenica mattina vado a comprarmi la sfogliatella o il cannolo, ma al ristorante non prendo il dolce perché è un gusto tiranno: alla fine la tua memoria organolettica ricorda solo quello, e tendi a dimenticare il percorso che hai fatto prima. Quindi, una parte di ristoranti serve una pasticceria che è troppo impegnativa per essere un dopo pasto. Un’altra parte invece, quelli che scelgono di fare una pasticceria alternativa a quella classica, sovente fanno dei piatti meravigliosi, bellissimi, molto giocosi, sempre virati su acidità e freschezza, ma che mancano di golosità. Ora, secondo me la verità sta nel mezzo. Non penso che Magorabin sia l’unico a fare questo ragionamento, ci sono altri che l’hanno fatto, uno su tutti Enrico Crippa, che fa una pasticceria straordinariamente moderna, creativa, fresca… però ragazzi, è golosa! Tralasciando i miei gusti personali, la media degli ospiti, quelli che amano prendere il dessert alla fine del pasto, vuole qualcosa che ti spalmeresti fin sulle orecchie. Questo è il concetto. In un ristorante come Magorabin non bisogna servire la pasticceria classica. Banditi i tiramisù, anche se destrutturati, bandite le torte e cose di questo genere. Noi giochiamo ad esempio sulle verdure, che possono essere trattate come se fossero frutta. Ma tutto con una percentuale zuccherina abbastanza bassa. Questa è l’idea, e infatti ho detto a Sara che se ha piacere di fare delle esperienze di stage e di approfondimento in alcuni ristoranti, le saprò suggerire quelli più adatti, quelli che reputo facciano dei dolci più golosi”.
Noi (italiani) e gli altri…
Qualche tempo fa, commentando l’ultima edizione del Bocuse d’Or, la più importante gara del settore, anche quest’anno dominata da scandinavi e francesi, hai detto che questa esperienza è lo spartiacque fra noi e gli altri…
“La cosa è molto semplice. Così come nella cultura del vino, anche in quella del cibo ad alti livelli noi in Italia siamo indietro di trecento anni. Con l’impero romano abbiamo conquistato culturalmente tutto il bacino del Mediterraneo e mezza Europa, abbiamo insegnato a dei barbari ad allevare le oche e ingrassarle, e a fare il vino. Poi però c’è stato il buco assoluto: gli altri sono cresciuti, gastronomicamente ed enologicamente parlando, noi invece siamo rimasti fermi al vino nelle anfore (che adesso, per carità, son tornate di moda) e al mangiarotto tradizionale. Mentre già nell’Ottocento-inizio Novecento la Michelin recensiva i primi ristoranti di alto livello, noi ci portiamo ancora dietro il retaggio del “Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo”. In Italia abbiamo un comparto agroalimentare che farebbe impallidire qualunque altro luogo del mondo. Peccato che siamo rimasti fermi all’epoca dei Comuni, ci tiriamo l’olio bollente da una finestra all’altra invece di fare gruppo. Nel Bocuse d’Or questo si vede molto. Soprattutto i Paesi nordici come Svezia, Danimarca, Norvegia prendono molto seriamente questo premio perché chi vince un Bocuse d’Or resta tutta la vita un Bocuse d’Or; penso anche alla Francia con la Medaille d’Honneur: ti rimane per sempre e ti apre poi tutte le porte. Qui in Italia invece la cosa è completamente diversa, è la piccola imprenditoria, che sopravvive con le unghie e con i denti, a fare l’eccellenza. E non è sintomatico che il riconoscimento ufficiale più grande, e l’unico che veramente conta, venga da un’azienda francese? L’unica guida che fa veramente la differenza è la Michelin. Se tu vai a mangiare in un ristorante stellato, puoi trovare proposte diversissime, ma un denominatore comune c’è: in uno stellato Michelin è quasi impossibile prendersi una sòla. La Michelin è l’unica guida che davvero ti cambia la vita, che ha un approccio veramente mondiale”.
Cosa vuol dire Magorabìn?
“Magorabin è lo spauracchio, l’uomo nero dei bambini, il babau. Una figura completamente dimenticata, lo vedo già nella mia famiglia. Io ho 43 anni e ho avuto la fortuna di avere, per i primi 18 della mia vita, la nonna viva vegeta e arzilla, insomma sono stato l’ultimo depositario nella mia famiglia di alcune cose legate alla tradizione roerina (mia nonna viveva in un paese che si chiama Valunga, a 10 minuti di macchina da Montà d’Alba), una cultura molto diversa da quella langarola, che pure è vicinissima geograficamente. Il Magorabìn è roerino come la Masca è langarola. Ho ancora avuto la fortuna di passare gran parte delle estati in campagna. La nonna mi svegliava presto la mattina, mi metteva la testa sotto il rubinetto (come diceva lei, “ti sguro”), dopodiché mi mandava a razzolare nei campi, i miei amici della campagna portavano al pascolo le mucche, facevano il fieno, tagliavano il grano e io li accompagnavo. C’era l’orto, andavo con la nonna a bagnare i pomodori, al mattino si raccoglievano le verdure, c’era il putagé che scoppiettava dalle 6 dei mattino. Quindi questa cosa del cuoco che ha il background della nonna grande cuoca casalinga non è una leggenda. Non so se sia stato per tutti uguale, ma per me sicuramente è stato così. Sono cresciuto coi profumi delle conserve, dei peperoni arrostiti spellati e poi messi nelle burnie, della giardiniera, di tutte queste belle cose qua.
Il Magorabin pare avere origini reali in una figura itinerante di mago-guaritore-giudice-sensale, il cui nome è un mix di Mago e rabin, che in piemontese arcaico vuol dire maestro, con evidente ascendenza ebraica. Era una specie di Gandalf che andava in giro avvolto in un mantello, a dorso d’asino o mulo e con un bastone, e quando si avvicinava ai villaggi presumibilmente i bambini ne erano spaventati e scappavano. Quando la figura ha cessato di esistere nella realtà è entrata nel folklore, tramandata nel linguaggio delle mamme che minacciavano i bambini: “sta brau o ciamu ‘l Magorabin”. Come infatti mi diceva anche mia nonna.
Nel 2002, erano già quattro anni che ero tornato a Torino, perché sono tornato nel ’98, lavoravo al Sorì di via Matteo Pescatore. Ma dopo quattro anni l’esperienza stava cominciando a diventare un po’ fine a se stessa. Io scalpitavo, continuare a rompermi la schiena per uno stipendio non era la mia natura. Non che sia sbagliato, ma ognuno ha la propria natura: c’è chi è uno straordinario gregario per tutta la vita, tra l’altro non avendo neanche l’onere della vita dell’imprenditore e prendendo generalmente dei bellissimi stipendi. C’è invece chi, come me, ha bisogno di emergere e dei soldi non gliene frega niente. Siamo andati in vacanza in Croazia con Simona, allora mia fidanzata adesso mia moglie, ed ero profondamente in crisi: ero alla soglia del 31 anni, il nostro è un lavoro molto faticoso, e mi ero reso conto di essere a un bivio. Tornati dalle vacanze, abbiamo deciso che ci saremmo dati sei mesi di tempo per decidere: o cercare un lavoro, o andare a vivere all’estero. Insomma, la vita della vineria per me era finita.
Serendipity?
Andiamo alla ricerca, troviamo un po’ di posti ma tutti chiedevano cifre folli. Un bel giorno – era settembre – stavo facendo la spesa per il Sorì in un negozio in via Vanchiglia ed entra un signore che li per lì non riconosco: era Gianfranco, proprietario della trattoria toscana Florentia, dove ero stato a mangiare un paio di volte, e dice alla proprietaria del negozio: “Marina, ma non conosci qualcuno che voglia comprarsi il locale?” Ho drizzato le orecchie e gli ho detto: “Io sono alla ricerca di un locale!”. Abbiamo parlato, ci ha mostrato il posto e ha fatto una richiesta assolutamente legittima e ci ha fatto un ulteriore sconto in cambio di poter finire l’anno.
In questo periodo, quando noi eravamo già burocraticamente proprietari della Florentia ma non ci eravamo ancora fisicamente entrati, in famiglia l’argomento principale era il ristorante. E – credo fosse ottobre, una di quelle ultime giornate di sole dell’autunno piemontese – eravamo nella casa della nonna (mancata già da molti anni) con Simona, i miei genitori, zie, cugini, mariti o fidanzati delle zie e il nonno. Dopo pranzo ci siamo seduti a chiacchierare, ed è spuntato l’argomento-nome. Ognuno diceva la sua: son venute fuori cose che ti fanno rizzare i peli sulla schiena tipo “La bottega dei sapori perduti”; qualcuno più ironico proponeva “Alle pappe buone”, ‘ste robe qui. No. Qui ci vorrebbe un nome, per cominciare, non composito, perché si ricordano di più i nomi singoli. Io non sono religioso, ma avendo avuto un passato abbastanza breve da innamorato delle discipline e delle filosofie orientali sono convinto che c’è una circolazione delle energie, e in quel momento è come se mi fosse arrivato un suggerimento. Uno religioso avrebbe detto: sei a casa della nonna, ed è lei che dall’aldilà ti ha ispirato. Io credo piuttosto che ci sia stato un collegamento mentale fatto di ricordi e di luogo, e ho detto: ci vorrebbe un nome tipo, non so, tipo Magorabìn. E così è nato il nome. Un omaggio alla mia infanzia, alla mia nonna, un nome che suscita curiosità.
Su quello che è venuto dopo ci sono mille aneddoti: i primi anni ci scambiavano per un locale etnico, gente che telefonava per chiedere se facevano il cous cous e cose di questo genere, perché la gente passava, guardava distrattamente l’insegna e in un attimo Magorabin diventava “magrebin”… Abbiamo anche commesso degli errori. Ad esempio la prima insegna poteva effettivamente far pensare a un locale etnico perché era un grosso quadro dipinto a mano, un sole bianco in campo rosso che è rimasto il nostro logo ma nel frattempo è diventato un tratto grafico mentre all’epoca era più pittorico. Poi io sono testardo di brutto (picchia le nocche sul tavolo), dicevo: la gente deve venire da noi perché deve venire da noi, non devo invogliarla con stupidaggini. Quindi per il primo anno non ho neanche messo il menù fuori e la gente davvero non sapeva cosa fossimo e facessimo. Però questi sono errori di gioventù, anche un po’ di presunzione, e di conseguenza sono successe anche queste cose.
Nel ’98 sei tornato da dove?
Nel ’98 sono tornato da Lecco. Dal 1992 al ’98 sono stato in giro. Dopo il diploma ho fatto un periodo sabbatico perché all’epoca, se non eri, come si diceva, “militesente”, era difficile trovare un lavoro anche solo come apprendista. Di conseguenza ho fatto un lungo viaggio con degli amici in treno, il famoso Interrail, poi ci ho preso gusto e il viaggio si è prolungato. Ci ha portati in giro per l’Italia e a un festival a Rastignano (Bologna), ho conosciuto gli Elfi di Gran Burrone, una comune anarchica che vive in quattro villaggi tardomedievali recuperati sull’Appennino tosco-emiliano in provincia di Pistoia, e dal momento che non avrei potuto lavorare fino a quando non avessi fatto il militare sono andato lì e ho vissuto un inverno, primavera e parte dell’estate molto interessanti, di cui porto ancora come ricordo i capelli, ed è lì che mi sono anche avvicinato alle discipline filosofiche orientali. E ho imparato a fare i formaggi. Poi finalmente ho fatto ‘sto benedetto militare, mio caso il servizio civile, e il destino ha voluto che andassi a farlo al Da Giau, il circolo Arci che c’è a Moncalieri lungo il Sangone. Io ho fatto il liceo artistico (i quadri appesi nel locale sono opera sua, ndr), quindi non è che avessi molta attitudine per quanto poteva servire al circolo: saper usare un computer, conoscere un po’ di elettronica perché c’era la musica e bisognava saper lavorare con un mixer; chiedere le tessere all’ingresso, ma non sono mai stato un pezzo d’uomo da uno e novanta per duecento chili di muscoli – non che dovessi fare il buttafuori, però alle due di notte il sabato sera a Nichelino sovente si aveva a che fare con dei truzzi non indifferenti. Per farla breve, mi chiedono cosa so fare. So cucinare, perché sono sempre stato appassionato. Così mi mettono in cucina, dove si fanno veramente quattro cavolate, ma è la prima possibilità di cominciare a muovermi in un ambiente un po’ più professionale. Finito il servizio civile, il mio primo impiego importante è stato al ristorante La Rocca, che all’epoca faceva parte del gruppo della Smarrita. Rita, la figlia di Moreno, ha creduto in me – io ero un giovanissimo col sacro fuoco – e lì ho cominciato la gavetta pelando patate, sgusciando gamberi e poco altro.
A un certo momento me ne sono andato da Torino. Sono stato in Inghilterra, a Roma, in Toscana, in Centro America per tantissimo tempo, in Francia, in Spagna, insomma ho girato parecchio. Quando sono tornato dal Messico sono stato in Liguria, poi ancora a Roma e infine a Lecco, dove mi sono approcciato al mondo dello Slow Food – sto parlando del ’97, all’epoca Slow Food era quasi una novità. Sono andato a lavorare in una trattoria segnalata sulla guida Osterie d’Italia e lì ho cominciato ad appassionarmi ai vini, alla cucina regionale, a prendere coscienza del mio lavoro di cuoco. Prima, fare il cuoco era una cosa che mi piaceva e mi dava la possibilità di viaggiare. Ma senza mai la consapevolezza di dove sarei voluto andare. L’unica cosa che sapevo è che a un certo punto della mia vita avrei aperto un locale mio – ovviamente nell’arco degli anni la tipologia di locale che avevo in testa è cambiata mano a mano che sono cambiato io. Poi sono tornato a Torino, ho lavorato in un paio di posti e poi sono spprodato al Sorì, e devo dire che un’altra lungimiranza di Roberto, il titolare (le altre erano state l’aprire una vineria in un periodo in cui a Torino questi locali praticamente non esistevano, e ad aver capito che un locale del genere aveva bisogno di un cuoco) è stata intuire che avevo il potenziale ma non l’obiettivo. E ha cominciato a portarmi nei ristoranti stellati. Il primo pasto gastronomico l’ho fatto all’Enoteca di Canale da Davide Palluda, che aveva appena aperto, e mangiando alla tavola dei ristoranti stellati ho avuto l’illuminazione di quello che avrei voluto fare. Ho cominciato a comprarmi i libri, a vedere cosa facevano i Grandi, da Nadia Santini a Heinz Beck eccetera”.
Cosa è cambiato dopo la stella?
“Dal punto di vista della clientela, si è determinata una selezione. È arrivata la clientela internazionale, sono arrivati i gourmet. Persone esigenti, e questo è uno stimolo a fare sempre meglio. Dal punto di vista dell’onore personale, mi nasconderei dietro un dito se non dicessi che è una cosa fighissima. Ricevere la stella mi ha tolto l’ansia da prestazione, lavoro molto più sereno, senza il patema del giudizio. Che non vuol dire sedersi sugli allori, anzi il contrario, perché sedersi sugli allori è l’inizio della fine, però vivo molto più serenamente in questo momento in cui sto crescendo per cercare di prendere la seconda stella, che non prima da zero a uno”.
Parliamo di contaminazione…
“Io sono uno che non si ferma mai, di conseguenza la nostra è una cucina in continua evoluzione. Cinque-sei anni fa le abbiamo dato un’dentità che è quella del territorio contemporaneo, della fusione. Poco per volta la stiamo affinando e arricchendo, partendo dal famoso Pescecarne (titolo del libro pubblicato da Gribaudo nel 2013, ndr), e allargando la visione perché nel frattempo Torino è cambiata. E tutto questo si trova al mercato, non lo devo andare a cercare col lanternino. Sono cresciuto con gli agnolotti e il brasato di mia nonna, ma anche con le orecchiette con le cime di rapa, la pizza di scarola e la pasta con le sarde delle mamme dei miei amici, perché essendo nato nel ’71 faccio parte di quella generazione che è cresciuta coi figli degli immigrati dal sud. Oggi a Torino e cintura ci sono marocchini, tunisini, algerini, rumeni, albanesi, cinesi, thailandesi, sudamericani eccetera. I nostri primi piatti di fusione nord-sud sono stati lingua gambero mandarino, o spaghetto pane burro acciughe, o il vitello e il tonno. Ovvero: la lingua (cultura piemontese), la passiamo da bollita, affettata finemente e servita col bagnetto verde, a cotta sotto vuoto, abbrustolita col burro di cacao, tagliata spessa, servita col gambero crudo dalla Puglia e la purea di mandarino di Sicilia. Burro e acciughe, merenda classica piemontese, è trasformata in un primo piatto con la pasta di semola (cultura napoletana), e l’elemento croccante della muddica (Palermo). Vitello e tonno: classico piemontese (vitello tonnato) smontato: il girello diventa, come dicevamo prima, una cottura scientifica; il tonno, un tonno rosso siciliano; del cedro fresco grattugiato sopra, capperi di Pantelleria, il tutto non frullato, mischiato, salsato ma costruito. Gli ultimissimi piatti invece sono soufflé di maiale con ceviche di granchio: i granchi che arrivano dal Canada vengono marinati con la tecnica della ceviche (Perù) in lime e coriandolo. Il soufflé di maiale è la cotenna del maiale che viene bollita, sgrassata, disidratata e fritta finché non si gonfia e diventa una cialda croccante: è una cultura del sudest asiatico, soprattutto sud della Cina e Vietnam. Messi assieme fanno una tartina friabile di maiale con sopra il granchio profumato con lime e coriandolo. Il tutto è abbinato a una mousse di avocado. Il salmone selvaggio dell’Alaska viene marinato col tamarindo (Thailandia), e servito in zuppetta con latte di cocco e porcini: nord Pacifico, sudest asiatico, Brasile, Piemonte.
Questa è la mia cucina, adesso la contaminazione è globale. La nostra idea/speranza è che alcuni nostri piatti possano essere talmente forti che un giorno diventeranno una tradizione. E già sta accadendo, ad esempio con la Oyster steak tartare: carne cruda al coltello, piemontesissima, che mia nonna condiva con un’acciughina sciolta nell’olio. Io ho tolto l’acciuga e l’olio e ho messo l’ostrica; mia nonna ci metteva un goccino d’aceto, io ci ho messo una creme fraiche fatta con yogurt e lime. Concettualmente, a livello di impatto col palato, stiamo parlando della stessa cosa, però abbiamo evoluto il gusto: l’ostrica rispetto all’acciuga è più fine, più elegante, meno salata e più iodata.
Alcuni miei piatti già vengono copiati. Come una volta si copiava il riso zafferano e oro di Gualtiero Marchesi adesso si copia l’oyster steak tartare. Vuol dire che stanno diventando tradizione, e questo è la riprova che la cucina è in continua evoluzione, perché sono in evoluzione i gusti e sono in evoluzione le persone. Continuo a dire che penso di essere, come cuoco, un narratore di quello che sta succedendo nella società del mio territorio. Attraverso i miei patti racconto l’evoluzione culturale che sta avvenendo a Torino.”
La racconti e la fai.
“Chiaro”.
Magorabin è in corso San Maurizio 61 a Torino, www.magorabin.it
Le immagini non direttamente riferite al ristorante sono state realizzate durante le prove pratiche e la premiazione dei vincitori della III edizione del Premio Giovani Chef Piemonte (aprile 2014, Torino)