Giulio Tedeschi, il paladino della musica indipendente che “porta a spasso” la poesia
Intervista di Nico Ivaldi
“Sono curioso di sapere che cosa ne farai adesso di tutto questo materiale.”
Giulio Tedeschi, sessantacinque anni, uno dei protagonisti della scena underground italiana, “paladino” della musica indipendente (secondo la calzante definizione di una rivista) e frenetico organizzatore culturale, mette la parola fine a
questa intervista. Come se fosse sorpreso di averci raccontato tante cose, proprio lui che quando ha scoperto dieci anni fa di essere una voce su Wikipedia, ha realizzato di aver vissuto non una ma cento vite. Tutte piene e tutte egualmente importanti.
“All’epoca non sapevo nemmeno che esistesse Wikipedia. Trovarmi da quelle parti mi fece sentire mummificato. Nuovo Dorian Gray davanti allo specchio, improvvisamente invecchiato. È stata una brutta sensazione. Ancora adesso continuo a chiedermi: ma come sono riuscito a fare tutte quelle cose? A freddo posso dire che ho vissuto in uno stato di grazia per oltre trentacinque anni, non rendendomi conto del tempo che passava”.
Ecco perché ora Giulio Tedeschi appare sinceramente preoccupato del lavoro che attende il povero direttore di giornale, che dovrà concentrare in un articolo tante avventure all’insegna della controcultura.
Da dove partiamo?
“Dalla fine. Da Wanted Primo Maggio”
Quello che doveva essere la risposta torinese al concertone di piazza san Giovanni a Roma?
“Beh, non esageriamo. Non ho mai avuto questa ambizione. Il mio è un festival-contest nato sì per celebrare in musica la Festa del Lavoro, ma anche per valorizzare musicisti indipendenti, alcuni invitati da me, altri selezionati con un tour nazionale che si conclude nello storico club torinese Hiroshima Mon Amour. Ai vincitori dell’area emergente viene offerta la possibilità di suonare in alcuni festival rock alternativi. Da tre edizioni ho inserito, con estrema ma ponderata
incoscienza, anche la poesia. Pensavo di traumatizzare tutti e invece è andato bene”.
Allora non si tratta di una gara tra Torino e Roma?
“Certo che no, è difficile gareggiare contro un evento che ha venti anni alle spalle, l’appoggio della Rai e i tre sindacati che sponsorizzano”.
Secondo te a Torino non è possibile ipotizzare qualcosa di simile, che so in piazza Vittorio?
“Certo, tutto è fattibile. Sarebbe stato anche possibile, in teoria. Come sarebbe stato relativamente facile ottenere contributi, non pubblici ovviamente ma privati, per poter sostenere questa iniziativa. La nostra è invece autogestita, basata sul lavoro volontario di decine e decine di persone in giro per l’Italia che ringrazio in continuazione per la loro abnegazione, convinzione e passione. Molti sotto i trent’anni, entusiasti, partecipano con grande trasporto emotivo e creano un piacevole feeling di cameratismo spontaneo, intessuto di buone vibrazioni”.
Cosa vuol dire sentire le vibrazioni?
“È una sensazione che ho imparato a cavalcare dalle mie lontane esperienze adolescenziali, tra gli anni ‘60 e ‘70, in quello che era il mondo giovanile ‘contro’ all’epoca”.
Da ragazzo cosa volevi fare nella vita?
“Secondo tradizione di famiglia avrei dovuto fare l’avvocato, mio nonno lo era e lo è mio figlio. Invece ho deviato. Io volevo scrivere, in particolare poesia. Da giovanissimo ho fatto esperimenti di vario tipo. A sette anni componevo un giornalino a una copia che regalavo a un vicino di banco, strappando un foglio da un quaderno. Se non ricordo male a undici anni provai ad abbozzare un romanzo storico su un brigante romagnolo dell’800, una specie di Fra’ Diavolo o qualcosa del genere. Tentativi infantili”.
Eri già un po’ editore?
“Ma chi lo sa. Certo che se dovessi scegliere tra musica e poesia, metterei davanti a tutto la poesia. La musica è arrivata per caso ed è diventata ragione di vita. La poesia invece l’ho coltivata clandestinamente. La ‘portavo a spasso’, come ha scritto il mio amico Matteo Guarnaccia. Negli anni ‘70 ne sono stato editore e organizzatore di reading. Il primo di questi è stato alla libreria Hellas di Angelo Pezzana, nel ‘72, avevo vent’anni. Tutto nasce così: nel novembre del ’71 arriva a Torino Nanda Pivano per presentare L’altra America negli anni Sessanta, un’antologia in due volumi sulla stampa underground americana. Alla fine della serata le domando: Pensi che ci sia ancora un futuro per l’underground? Lei mi guarda e mi dice: Basta guardarti per capire che l’underground continuerà a esistere sempre! Capisci? Ho ancora la pelle d’oca a pensarci. È stato il mio battesimo del fuoco. Ero giovane, ma già grande”.
Spiegati.
“All’epoca ero già sposato e padre di Allen, stavo organizzando la mia esistenza. Un momento di leggerezza pazzesca, pur con tutte le difficoltà del caso. Dopo pochi mesi creo un foglio alternativo intitolato provocatoriamente ‘Tampax’, poi diventato casa editrice. Un ‘aperiodico di lotta visionaria’, come lo definivamo. Ogni numero impaginato su unico foglio eliografato, Raccoglieva notizie dalla scena underground italiana ed internazionale, fumetti alternativi, critica musicale, poesie. Tra i collaboratori c’erano Elio Bussolino, Max Capa, Riccardo Bertoncelli, Matteo Guarnaccia, Gianni Milano, Carla Celsa, Simonka Toncy Violi, Walter Ferrari”.
Cerco in rete: “Tampax fu sicuramente espressione di quel settore minoritario dell’underground italiano votato alla psichedelia, rimanendo, a distanza di tempo, una testimonianza forse ingenua ma sicuramente originale ed autentica di un periodo irripetibile”.
Qual è l’iniziativa che ti inorgoglisce di più?
“Non ho mai ricercato il fine. Quello che continua a interessarmi non è il capolinea, è la strada”.
Se per quello, di strada ne ha fatta tanta, Giulio Tedeschi. I soggiorni a Parigi, dove stringe rapporti con fumettisti e intellettuali; quelli nella Spagna franchista, dove prende contatti con esponenti del rock catalano, movimento creativo da cui deriverà quasi tutta la scena musicale indipendente iberica degli anni Ottanta; la visita della Grecia, dove conosce Andrè Canneloupoulos, torturato durante il regime dei colonnelli. Ed è uno dei ventimila che si riuniscono sul litorale di Ostia per quello che sarà ricordato come il Festival Internazionale di Poesia di Castelporziano, che ospitò Allen Ginsberg, Dario Bellezza, Evgenij Evtusenko, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso. E ancora, Giulio Tedeschi è stato uno dei primi a portare i libri originali di Charles Bukowski in Italia, allora pubblicati dalla Black Sparrow Press, una piccola editrice alternativa che ha editato anche John Fante. Negli 1980 Giulio Tedeschi pubblica “Camion”, di cui escono soltanto due numeri. “Camion” è il sigillo finale di dieci anni di movimento, di nuotate nella controcultura, di esperimenti.
Cosa ti ha spinto a diventare il paladino delle etichette emergenti?
“Io nasco all’interno di quest’area che veniva definita controcultura. Ero uno dei più giovani tra coloro che si agitavano in Italia. Non ho mai avuto particolare aiuti o incoraggiamenti. L’unica spinta illuminante è stata quella della Pivano, che mi ha aperto una porta. In realtà mi sono sempre sentito solo contro il mondo e ho sempre ritenuto che fosse mio dovere, visto che mi sentivo nella posizione di farlo, di aiutare quelli che stavano crescendo a fianco e dopo di me”.
Come Stefano Righi, un giovane torinese di barriera.
“Il futuro Johnson Righeira era studente al liceo scientifico Einstein, quando ci siamo incontrati aveva velleità di vario genere. Un giorno ricevo una lettera alla mia casella postale, la 315. Stefano, senza conoscermi direttamente, mi chiedeva di essere editore per una fanza punk che voleva mettere in circolazione. Per poterci incontrare, un mattino lui taglia la scuola, presentandosi con una pistola ad acqua dal look fantascientifico. Era un tipetto scherzoso. Dopo una lunga serie di incontri gli dico di lasciar perdere con la carta stampata e lo invito a fare un disco. Non l’avessi mai detto! A quel punto il meccanismo si mette in moto. Gli finanzio la registrazione del 45 giri ‘Bianca surf’, prodotto esclusivamente da me con marchio Italian Records/Meccano. Il resto è storia nota”.
Avevi capito che era la musica il mezzo per parlare alla gente, non più la poesia.
“Sì, appunto. Sono sempre stato contrario alle major. Per l’indipendenza dei mezzi produttivi e per l’autogestione della propria creatività. Convinzioni che si contrappongono all’industria discografica. Ho sempre combattuto per dare voce all’area indipendente, emergente. Ma non ho mai voluto fare crociate, solo aprire nuove strade”.
La sua Toast Record, fondata nel 1985, è oggi la più longeva etichetta indipendente italiana, nonché l’unica a non essersi mai appoggiata, per la diffusione, a strutture multinazionali. Tra i progetti musicali scoperti o valorizzati da Tedeschi ricordiamo gli Statuto, Afterhours, Yo Yo Mundi, Marlene Kuntz, i Powerillusi e musicisti come Max Casacci, futuro chitarrista dei Subsonica, che debutta proprio con Toast Records. E qui ci fermiamo, perché siamo all’oggi, a Wanted Primo Maggio, che per Giulio-che-non-si-stanca-mai è anche domani, naturalmente.
“Eh no, c’è ancora una cosa” dice porgendomi un libro, Madras Ice Cream, naturalmente autoprodotto. “Questa è la mia raccolta di poesie, più di quarant’anni di frammenti di vita”.
Lo sfogliamo: brevi frammenti di pensieri, haiku, flash di ricordi, istantanee, chiamiamoli come vogliamo, ma in queste pagine c’è più Giulio Tedeschi che in ogni altra voce enciclopedica. Leggendo le sue poesie viene voglia di partire per un viaggio scandito a tempo di rmusica. Per arrivare dove, non importa, direbbe il guru dei musicisti indipendenti. Conta quello che vivi durante il percorso: “Stanotte vorrei la luna piena una nuvola di farfalle bianche un tappeto di edera una musica silenziosa un sonno profondo” (da Madras Ice-Cream).