Macina e buratto
Il Mulino Roccati non assomiglia a quelli della pubblicità: è un posto reale dove si lavorano solo grani piemontesi
di Lucilla Cremoni e Michelangelo Carta
“La storia di questo mulino comincia nel lontano 1961. Noi abitavamo a Chieri, mio padre ha sempre fatto il mugnaio, come dipendente, poi un amico gli ha proposto di acquistare questo mulino. E mio padre mi ha chiesto: se compro il mulino, tu lavori o studi? No no, mi travaju!. E sono cinquantasei anni che faccio il mugnaio”. Una bella virata per un ragazzo che, orgoglioso studente dell’Avogadro, fino a non molto tempo prima rifiutava sdegnosamente anche solo di considerare l’ipotesi di seguire le orme paterne.
Che si sia trattato della fascinazione ancestrale e irresistibile per tutto quanto ha a che fare col pane o, più prosaicamente, della scelta di un giovane che preferiva la pratica alla grammatica ma non voleva fare il dipendente, fatto sta che la decisione di travajé col padre è l’inizio dell’avventura di Piero Roccati, eponimo del mulino di Candia Canavese che gestisce assieme alla moglie Maura e ai figli Roberto e Sabrina.
Chiariamo da subito: il Mulino Roccati non assomiglia per niente alla casetta con la ruotona dove si fanno i biscotti parlando con le galline e non è una pittoresca struttura plurisecolare ridisegnata e rifunzionalizzata da qualche architetto di grido. Non ci sono penombre polverose ed evocative ma gli spazi concreti di un’azienda in piena attività dove regna il rumore delle macchine in movimento e tutto è luminoso e pulitissimo.
In parole povere, un posto reale dove si trasformano cereali in farine. “In questi cinquantasei anni abbiamo cambiato i macchinari, modificato gli impianti per rendere più sicuro ed efficiente il processo di lavorazione, ma il sistema di lavoro è rimasto lo stesso: grani piemontesi, farine panificabili e da polenta”.
Solo grani piemontesi? “Sì, anzi soprattutto prodotti del circondario e dell’Alessandrino, principalmente il Monferrato e la Val Cerrina. E i cereali del parco di Stupinigi. Stesso discorso sul mais: abbiamo messo assieme un gruppo di agricoltori che ci fornisce mais canavesani, ideali per la polenta, quindi maciniamo solo quello”.
Stupinigi? “È molto interessante la filiera del parco di Stupinigi, con cinque produttori di grani locali che portano il prodotto al mulino dove, dopo il processo di miscelatura, viene macinato e inviato ad un forno che provvede alla produzione del pane”.
La “Filiera della farina di Stupinigi” in effetti merita una digressione. Si tratta di un progetto di Coldiretti Torino attivo da qualche anno in collaborazione con varie associazioni locali e cooperative sociali. Mette in pratica la cosiddetta “agricoltura di prossimità” – cioè praticata a ridosso della città in aree che offrono opportune garanzie ambientali e sanitarie – e crea una filiera corta in cui sono coinvolte professionalità diverse ma tutte in grado di certificare la qualità del rispettivo prodotto. Con l’aggiunta di una non trascurabile dimensione etica, perché tutti si impegnano a lavorare in modo trasparente e a garantire condizioni economiche eque per produttori e consumatori. Per attuare il progetto, Coldiretti Torino si è rivolta al Laboratorio Chimico della Camera di Commercio di Torino per l’analisi e l’individuazione dei terreni adatti; e ha predisposto il disciplinare di produzione, al quale hanno aderito cinque aziende agricole locali sui cui terreni dal 2014 sono state seminate varietà di grano tenero a basso tasso di glutine, adatte alla panificazione e alla pasticceria. Una volta trebbiato, il grano viene consegnato al Mulino Roccati per la trasformazione in farine. Infine la cooperativa torinese Articolo 4, a cui fa capo il panificio Panacea, provvede alla panificazione tradizionale, con pasta madre, e alla commercializzazione nei suoi punti vendita.
Ma torniamo al mulino. Quanta produzione fate mediamente?
“Le potenzialità sono relativamente alte, ma oggi maciniamo solo due o tre giorni la settimana perché c’è stata un’evoluzione, il mercato è cambiato”.
Cioè?
“La mia non vuole essere una polemica, ma negli ultimi dieci-quindici anni si sono usati sempre più i miglioratori, che aiutano a fare il pane più in fretta accelerando la lievitazione. E chi vuole fare il pane in fretta, come i panifici industriali, la nostra farina non riesce a usarla, perché ha tempi di lievitazione lunghi. E siccome io non sono dell’idea di fare le farine con gli additivi e uso solo grani selezionati e in purezza, abbiamo ridotto la lavorazione e serviamo soprattutto panifici artigiani, ristoranti, pasticcerie”. Oltre naturalmente alla vendita al dettaglio, direttamente al mulino oppure ai mercati di Campagna Amica Coldiretti che si tengono tutte le domeniche in varie piazze torinesi.
Il mulino in piena attività non ha niente di romantico, e proprio per questo è più interessante. È un insieme di macchinari e tubi, tantissimi tubi, di ogni dimensione, intrecciati e inclinati in modo solo apparentemente caotico, fra i quali i Roccati si muovono con la massima disinvoltura mentre noi sembriamo orsi, attenti come siamo a non inciampare o picchiare la testa. E tutto fa rumore. C’è un aggeggio che vibra come un enorme setaccio – forse perché è un enorme setaccio – sostenuto da curiose astine cilindriche, che assomigliano a canne. E in effetti fino a non molto tempo fa erano proprio canne di un bambù speciale, robustissimo e incredibilmente flessibile, che si doveva importare direttamente dall’Egitto, e solo in anni recenti le canne sono state progressivamente sostituite da materiali in grado di sopportare quella frequenza e intensità di vibrazioni e sollecitazioni.
Che percorso fa il grano per diventare farina?
“Il grano è scaricato nella fossa, quindi pulito una prima volta e portato nei silos di deposito, dove si fanno le miscele di diverse varietà a seconda del prodotto che si vuole ottenere. Prima però di passare dai silos alla macinatura il prodotto viene ancora pulito, condizionato e lasciato riposare. Il condizionamento è una fase molto importante perché il chicco viene ammorbidito permettendo di ottenere una farina bianca con poca crusca”.
Il mulino si sviluppa su tre livelli “perché si sfrutta la caduta. Il frumento dal pianterreno viene portato al terzo piano con tubi di aspirazione – una volta c’era il sollevatore coi secchi di legno, ma questo sistema è infinitamente più efficiente e igienico – e poi si lavora a scendere col passaggio nei laminatoi, che sono quattordici. Vuol dire che il grano fa quattordici passaggi per diventare farina bianca”.
Il processo è lo stesso anche per la macinatura a pietra?
“No, le differenze ci sono a partire dal risultato finale: nel caso della macinatura nei laminatoi la farina che si ottiene è bianca e priva di crusca. Questa lavorazione è più veloce, quindi c’è la possibilità di una produzione è più alta. Lo stesso vale anche per il mais”.
Come funziona la macinatura a pietra?
“Innanzi tutto bisogna dire che la macina è composta da due parti, una fissa e una mobile. Il grano viene immesso in una tramoggia di carico; da qui passa nella pietra che è la parte in movimento e quindi, attraverso una serie di fori, cade sulla parte fissa della mola dove viene macinato per schiacciamento. Il prodotto passa infine in un setaccio, chiamato buratto, tarato a seconda della granulosità che si vuole ottenere, che adesso è rotondo ma in origine era ottagonale”.
Quindi le farine macinate a pietra sono migliori?
“Sì, perché essendo la macinazione a pietra molto più lenta, il grano non si surriscalda e quindi mantiene intatte le sue proprietà nutrizionali. Questo non vuol certo dire che la farina fatta coi laminatoi non sia buona. Dipende sempre dalla qualità del frumento”.
Si fa un gran parlare di valorizzazione dei prodotti locali o varietà storiche da recuperare…
“Ci sono tanti progetti, ad esempio sugli antichi grani, piemontesi o di altre regioni. Ma il problema è: come si controlla la filiera? Anche la grande distribuzione vorrebbe scrivere queste cose sui pacchetti, ma le quantità ottenibili sono limitate. E poi produrre quelle farine ha dei costi, e certo non sono compatibili con quelli stracciati del supermercato, quindi il vero rischio è che con cento quintali di farina di antichi grani o piccole varietà locali ne vengano fuori diecimila, di quintali, perché una dicitura tipo “con farine di antichi grani” non specifica la percentuale di quella farina che deve essere effettivamente presente”.
Stiamo per addentrarci in una discussione sulla consapevolezza del consumatore che deve essere libero di acquistare quello che vuole e dove vuole, ma deve essere correttamente informato sul prodotto che compra, sapere ad esempio da dove arriva davvero la farina che acquista e come è arrivata su quegli scaffali…
Ma arriva la signora Maura col caffè e decidiamo che, almeno per il momento, il modo migliore per combattere la globalizzazione è concentrarci sulla sua fantastica crostata e sulle altrettanto sublimi paste di meliga. A proposito: lo sapevate che il fumetto di mais che si usa per le paste di meliga non è ottenuto con una macinazione apposita, ma è lo sfarinato di risulta della macinazione del mais da polenta?
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