La ritirata di Russia nel diario di un soldato semplice
di Franco Galvagno
Alle ore 23 del 31 luglio 1942 la tradotta con un lungo fischio lasciò Borgo San Dalmazzo con il suo carico di giovani per una guerra già persa in partenza e pochi di quella tradotta rividero ancora Borgo San Dalmazzo, del gruppo di amici solo io ritornai avendo fatto tutta la ritirata, e un altro che per fortna, e dico proprio fortuna, era rimasto ferito rientrando in Italia un po’ prima della ritirata.
La tradotta viaggia ormai nel oscurità, e vicino a me ci sono due amici; uno della mia età, e un Ligure: è sposato da venti giorni ma à dovuto rientrare subito al reparto per questa partenza. L’altro è del 13 è sposato e à già una bambina di circa tre anni, questo si era fatto anche la guerra in Africa Orientale, in Somalia, creando quel Impero che ridusse l’Italia a zero. Piangono tutti e due in silenzio come se avessero vergogna ma gli faccio coraggio, gli dico siamo ritornati altre volte e ritorneremo anche questa volta, ma non fu così… (dal diario di Dionigi Galvagno)
Sono stati scritti molti libri sugli avvenimenti che hanno riguardato il corpo di spedizione in Russia, credo che mio padre li abbia letti tutti. Ma nessuno di quelli che ricordo è stato scritto da semplici soldati: sono testimonianze di chi aveva partecipato agli eventi con i gradi. Avere i gradi significava avere un titolo di studio (un diploma qualsiasi, non necessariamente una laurea), e di conseguenza voleva dire “avere le parole” – o, come direbbe uno storico, gli strumenti per tradurre in un codice condiviso l’urgenza di comunicare.
Mio padre aveva la terza elementare, e il non aver potuto andare a scuola è stata per lui una ferita mai sanata, che assieme a quella della sua vita militare lo ha segnato per tutta la vita. Queste due esperienze sono sempre state presenti nei suoi discorsi e nei suoi ricordi, con lo stesso peso. Così mi spinse a studiare, volle che mi iscrivessi alla scuola media e poi al liceo. Non ho mai avuto il coraggio di abbracciarlo e dirgli quanto importante per me sia stata questa sua decisione, neppure negli ultimi anni della sua vita, perchè il carattere piemontese, o sabaudo come qualcuno ama definirlo, non è solo sobrio, ma talvolta anche così stupido da non permettere la sincera ed aperta dimostrazione degli affetti.
Era nato il 14 settembre del 1914 a Sommariva Bosco. Meno di 30 chilometri da Torino, ma c’era allora una distanza abissale tra il modo di vivere in una città industriale e in un paese molti dei cui abitanti erano abituati ad emigrare in Francia per trovare lavoro. Ancora negli anni Cinquanta, quando si andava a trovare i parenti, la differenza era evidente: animali per la strada – ovviamente non asfaltata – il gabinetto in fondo al cortile o direttamente nel prato, la carta moschicida appesa al soffitto. Non che Torino in quegli anni fosse rose e fiori, ma se non altro i mucchi di letame non c’erano, non si doveva andare a fare i propri bisogni nel prato e non c’era la carta moschicida. Credo che la famiglia non se la passasse molto bene. Mio nonno paterno faceva il fabbro, nel senso generico del termine, ma la sua attività principale era quella del maniscalco. Con suo fratello, aveva avuto l’incarico della ferratura degli animali da lavoro nella tenuta di Pollenzo, incarico che ebbe fine con la Grande Guerra. Quanto tornò dalla guerra riaprì la bottega, ma i tempi erano cambiati, non poteva permettersi un lavorante e, finita la terza elementare, decise di non mandare più a scuola suo figlio e di farlo lavorare con sé. Lascio immaginare cosa potesse fare un bambino di 9 anni in una fucina, ma credo che ci sia materia a sufficienza per fare qualche riflessione su quelli che si sentono spesso ricordare come “i bei tempi di una volta”. Mio nonno aveva l’abitudine di bere vino, lo sballo di massa di allora, ma, stando a quello che ha sempre raccontato mio padre, moderatamente. Questo significa che non tornava a casa ubriaco e violento, ma picchiare la propria moglie sotto l’effetto dell’alcool doveva essere uno spettacolo tristemente frequente allora, se fin da piccolo mio padre decise di non bere mai vino, né liquori. Questa ferrea osservanza non gli impedì di tenere qualche bottiglia in cantina per gli amici e, negli ultimi anni della sua vita, di concedersi qualche bicchiere di vino.
Mia nonna paterna è vissuta a Torino con noi per anni, poi, qualche anno prima di morire, ha voluto ritornare al suo paese, nella vecchia casa in cui abitava suo fratello. La ricordo vecchia, indipendentemente dall’età vera, alta e magra, i vestiti neri a fiorellini o a righine bianche. Fiutava tabacco, che prendeva da una piccola tabacchiera d’argento custodita nei risvolti del grembiulone. Credo che questa abitudine abbia sempre riscosso la riprovazione dei conoscenti che proprio per questo penso la considerassero persona non tanto perbene.
Terminata la parentesi da apprendista fabbro, di tornare a scuola non si parlò più e, dopo un periodo da apprendista muratore, dopo il servizio militare mio padre si trasferì a Torino, iniziando quello che sarebbe stato il lavoro della sua vita, il panettiere. Un giorno, verso la metà dell’ultimo anno di liceo, mi spiegò che aveva scelto quel mestiere perchè si lavorava in un ambiente pulito e “di notte”, e questo voleva dire che, anche se non sempre, di giorno con i suoi amici era libero di andare in bicicletta, al cinema e qualche volta a ballare (“andare in bicicletta” voleva dire, alla fine della giornata di lavoro, saltare in sella e con un gruppo di amici pedalare fino al Sestriere e ritorno; se c’era la disponibilità di avere un paio di giorni liberi consecutivi, si andava al mare). Subito dopo mi propose un patto: se avessi voluto continuare gli studi universitari, ne sarebbe stato felice, ma avrei dovuto completarli senza andare fuori corso perchè lui e mia madre avrebbero contemporaneamente ceduto la gestione del negozio, andando in pensione. Se, al contrario, avessi desiderato continuare il suo lavoro, non ne sarebbe stato felice ma avrebbe attrezzato il laboratorio con nuove macchine, in modo da mettere in piedi un panificio modello. Scelsi di farlo felice, e con lui mia madre naturalmente, ma solo il giorno del conseguimento della laurea, guardandolo negli occhi, avrei saputo quanto. Ne è testimone mia moglie.
Mio padre aveva fatto il servizio di leva nel corpo degli Alpini, come da tradizione dei nostri luoghi. In quel periodo, al nonno fu diagnosticato un tumore che lo costrinse a cessare l’attività e che in breve lo portò alla morte.
Nel 1936 fu mandato a Genova, in attesa dell’ordine di partenza per l’Africa; sono rimaste fotografie in cui è assieme ai commilitoni in riva al mare. L’ordine della partenza per l’Africa per mio padre non arrivò mai. In compenso partecipò alla campagna in Albania e Grecia, le cui reni avrebbe dovuto contribuire a spezzare. Tornò sano e salvo per un caso del destino. La nave che lo riconduceva in Italia faceva parte di un convoglio di tre unità: la prima e la terza furono silurate, quella di mezzo, su cui si trovava, compì indenne la traversata fino a Bari. Anche di questo periodo è rimasta una serie di fotografie che lo ritraggono sia in Albania sia al rientro, e due di queste mi sono sempre piaciute moltissimo: la prima immortala una partita di calcio tra commilitoni, la seconda una merenda alla quale partecipa anche un mulo, a dimostrazione del bisogno di recuperare un po’ di normalità persino nei momenti più tragici. È rimasto anche un ritratto a matita fatto da un disegnatore che per guadagnarsi da vivere ritraeva questi ragazzi al momento dell’imbarco.
Fu nuovamente richiamato e nel luglio del 1942 partì con la Divisione Cuneense per la campagna di Russia. Partirono con lui diversi suoi amici di Sommariva – alcuni richiamati come lui, altri di leva – la maggior parte dei quali non fece ritorno. Faceva parte delle salmerie (o della “sussistenza”, come l’ha sempre chiamata), “comandato” a preparare il pane per le truppe. Non direttamente in prima linea. Ho sentito più di una volta qualche solone sentenziare che questi non erano soldati e quindi non era poi così strano che si fossero salvati. Affermazioni del genere si commentano da sé.
Fuori da ogni retorica, si deve dire che non partirono certo con entusiasmo, né lui né gli altri, capendo benissimo a quale disfatta sarebbero andati incontro, male equipaggiati, in zone non adatte al tipo di azione militare che un corpo di artiglieria alpina sapeva condurre, messi sull’avviso da chi era partito per il fronte russo già nel ’41 ed era ritornato. Ma partirono: per dovere, per obbligo e per quella rassegnazione che ha sempre contraddistinto le classi subalterne.
Ancora una volta la sorte gli fu benigna perchè, senza saperlo, chiuso nella sacca, al termine della battaglia di Nikolajevka del 26 gennaio 1943 si trovò a seguire quelli che sarebbero tornati, lasciando gli amici di una vita morti in mezzo alla neve, mentre l’altra parte sarebbe stata fatta prigioniera dai russi.
A casa, come fu il caso di tutti quelli che tornarono, lo aspettava un’altra prova durissima. Il suo ritorno aveva alimentato la speranza di chi aspettava un figlio, un fratello, un marito. Lo sommergevano di domande: aveva visto questo o quello, dove, quando, in quali circostanze? Se si trattava di persone perse di vista, era meno difficile dire la verità. Ma come si poteva dire che sì, aveva visto quel suo amico, avevano dormito assieme in un’isba e poi al mattino l’aveva trovato morto assiderato accanto a lui e lo aveva dovuto lasciare lì per sempre? O che l’aveva soccorso durante la marcia fino a quando aveva capito che se ne era andato? E il sentirsi in colpa per essere ritornato, mentre per gli altri la sorte era stata diversa: cosa aveva fatto pur di salvarsi, a chi, e quali soccorsi non aveva prestato, pur di salvare la pelle?
Dopo l’8 settembre mio padre è stato partigiano, parola che sembra essere diventata un po’ ingombrante da qualche tempo a questa parte, e dopo la guerra ha ripreso il suo mestiere di panettiere, fino al 1966. Pur ritenendosi a buon diritto un Alpino, non ha mai voluto partecipare a raduni o sfilate, perchè le vicissitudini della campagna di Russia e il ricordo dei compagni perduti per sempre gli impedivano di accettare l’aspetto retorico di queste manifestazioni. Ma non ha mai dimenticato gli amici che hanno avuto la fortuna di ritornare, andando ad abbracciarli al termine delle sfilate, quando queste si svolgevano nelle vicinanze di Torino.
È morto per un infarto nell’ottobre del 1981, la sera di un bellissimo sabato trascorso a casa nostra, cercando funghi nel boschetto vicino – una delle sue grandi passioni assieme alla (proibitissima) pesca con le mani nei fiumi – e giocando con le nipoti.
Nel corso degli anni mio padre ha raccontato più volte la sua esperienza, ma scontrandosi sempre più spesso, col passare del tempo, con la poca voglia di starlo a sentire da parte di chi non riusciva a comprendere il suo stato d’animo, o tagliava corto pensando così di evitargli la sofferenza che ogni volta vedeva riaffiorare assieme ai ricordi. È un destino frequente ai sopravvissuti (ben descritto da Primo Levi, fra gli altri) e da questi razionalmente comprensibile, ma che aggiunge alla devastazione della tragedia vissuta il dolore di non essere ascoltati o creduti.
Forse anche questo ha rafforzato la sua volontà di scrivere le proprie memorie sulla ritirata di Russia. Volontà espressa da tempo e messa in pratica appena cessata l’attività, quando mio padre ha finalmente avuto il tempo per rimettere insieme tutti i suoi ricordi. Scrivere non gli veniva né naturale né facile, quindi il fatto stesso che li abbia messi su carta, con la scrittura fitta ma ordinata, prudente e scrupolosa delle generazioni in cui la “bella calligrafia” era materia scolastica, la dice lunga sulla forza di quei ricordi e sull’urgenza di raccontare.
Sono pagine che descrivono in modo molto diretto gli eventi, raccontano gli avvenimenti visti “dal basso”. Contengono errori di ortografia, di grammatica, di sintassi, perchè sono scritte da una persona che non ha potuto frequentare la scuola oltre la terza elementare, ma proprio a questi motivi devono la loro forza. Certe osservazioni o affermazioni a volte possono sembrare contraddittorie: in realtà, la pressione emotiva (più ancora della mancanza di basi culturali) gli ha talvolta impedito di fare un’analisi più articolata degli argomenti. Voglio ricordare un richiamo che mi fece non personalmente, ma come rappresentante della categoria degli studenti alla fine degli anni Sessanta. Di fronte alle agitazioni violente davanti alle università prevalse in lui il ricordo di quando la stragrande maggioranza degli studenti era allineata con le idee fasciste e mi disse, con una durezza che mi fece male: “Gli studenti sono quelli che gridavano vogliamo la guerra. Quella che abbiamo fatto noi, in cui sono morti i miei amici, mentre loro se ne stavano a casa”, senza pensare che questa volta la stragrande maggioranza degli studenti non apparteneva più alla classe che lui ricordava.
Ho letto per la prima volta quelle pagine quando era ancora in vita. Allora ritenevo che si dovessero correggere prima di farle leggere ad altri. Negli anni successivi ho capito che quelle pagine devono essere lasciate come sono, se si vuole che siano vive e che parlino a chi le vuole ascoltare.
Quando abbiamo pensato come ricordarlo a cent’anni dalla nascita, siamo stati concordi nel ritenere che non ci sarebbe stata cosa migliore da fare, se non quella di far semplicemente conoscere qualche pagina di questa sua personale testimonianza.
Qualcuno mi ha chiesto se mio padre gradirebbe questo modo di festeggiarlo, fosse in vita. Rispondo di si, senza alcuna esitazione. So che le ha scritte soprattutto perchè il ricordo rimanesse vivo nella nostra famiglia, ma sono certo che, in cuor suo, avrebbe voluto farle conoscere ai miei amici, con i quali gli era difficile parlare perchè non era “istruito”.
Vorrà dire che noi, che siamo “istruiti”, finalmente potremo soddisfare questo suo desiderio.
Per ricordare Dionigi Galvagno, alcuni estratti del suo diario saranno letti dall’attrice Elisa Galvagno con accompagnamento musicale a cura dell’Accademia dei Folli domenica 14 settembre alle 18:30 presso la Biblioteca Civica “Natalia Ginzburg” di Via Cesare Lombroso 16 a Torino.