Marco Matta
l’eroe piemontese ed europeo che l’Europa ha dimenticato
di Alberto Tessa
Iraq, Afghanistan, Somalia, Congo. Sono i nomi di alcuni dei Paesi in cui i militari italiani, nel secondo dopoguerra, hanno versato il proprio sangue, servendo il Tricolore o agendo sotto le insegne della Nato o delle Nazioni Unite. Pochi sanno, tuttavia, che del sangue, soprattutto italiano, è stato sacrificato anche in nome dell’Europa unita. Sono i cinque martiri (quattro italiani e un francese) uccisi nell’eccidio di Podrute: il tenente colonnello Enzo Venturini, il maresciallo capo Fiorenzo Ramacci, il pari grado Silvano Natale, il tenente di vascello della Marina francese Jean-Loup Eychenne e il sergente maggiore Marco Matta, quest’ultimo originario di Sangano dove tuttora risiede la famiglia. Tutti sono stati decorati con la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
25 anni fa
Era il 7 gennaio 1992 e si era in piena guerra di Jugoslavia quando nei cieli di Podrute, piccolo borgo situato nel nordest della Croazia non distante dai confini con la Slovenia e l’Ungheria, un caccia MiG-21 pilotato dall’allora tenente serbo Emir Šišić abbatté un elicottero Agusta Bell 205 disarmato, dalla livrea ridipinta di bianco e con a bordo i cinque osservatori militari europei. Quegli uomini erano impiegati nell’ambito della European Community Monitor Mission, una missione non bellica ma di pura osservazione finalizzata al controllo del rispetto del cessate il fuoco fra le varie parti in conflitto. Proprio quel giorno il sergente maggiore Matta, che pilotava l’AB-205 insieme al comandante Venturini, compiva 28 anni.
L’altro elicottero, un AB-206 anch’esso italiano, riuscì a sfuggire all’attacco e la testimonianza del suo equipaggio si sarebbe rivelata fondamentale per attribuire con certezza la responsabilità della strage. “La dinamica è chiara”, spiega Mario Matta, padre di Marco che insieme a mamma Maria, scomparsa da poco più di un anno, si è battuto affinché la memoria del figlio avesse giustizia. “I serbi hanno deliberatamente abbattuto l’elicottero pilotato da Marco nel tentativo di fare ricadere la colpa sulla neonata Repubblica di Croazia. L’altro velivolo è però riuscito a scappare e a smascherare la tragica truffa”.
Non ci sono in Mario, né ci sono mai state in Maria, parole particolarmente dure nei confronti del pilota Šišić: “Ha fatto quello che gli hanno ordinato di fare. Lo capisco. Ciò che mi ha gelato il sangue nelle vene è stato conoscere l’ordine, partito dal comando a terra, con cui mio figlio e i suoi commilitoni sono stati ammazzati: ‘Oderi!’, che si può tradurre con ‘Scuoiali!’”.
Quel che rimase dei corpi fu portato a Zagabria, dove le autorità croate tributarono onori di Stato a quelli che tuttora sono considerati eroi nazionali. Ci furono altri funerali di Stato, questa volta italiani, a Udine, alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Marco ebbe infine sepoltura a Sangano, sul cui cimitero ancora oggi, un paio di volte l’anno, volteggiano gli elicotteri dell’Aviazione dell’Esercito provenienti da Venaria Reale, in segno di saluto.
I comandi serbi tentarono di attribuire sin da subito l’intera responsabilità al pilota. “Ma questa versione non ha mai convinto nessuno”, spiega ancora Mario Matta. “Un MiG armato richiede il coinvolgimento di molti uomini a terra. Il caccia di Šišić, inoltre, partì da Bihać (città del nordovest della Bosnia), a più di 150 chilometri in linea d’aria da Podrute. C’è stata dunque una precisa volontà di abbatterli. Il pilota non si trovava lì per caso e non ha sbagliato”. Marco e i suoi commilitoni stavano tornando da Sarajevo e seguivano quella strana rotta proprio per stare il più vicino possibile a un Paese neutrale come l’Ungheria, pronti a buttarsi nel suo spazio aereo in caso di guai. I serbi, dunque, presero chiaramente la mira.
Un po’ di cronaca giudiziaria
La giustizia croata si mise subito in moto, tanto che già il 30 settembre 1992 si giunse a una sentenza e il pilota Emir Šišić e il tenente colonnello Dobrivoje Opačić, comandante della base militare di Bihać, furono condannati, in contumacia, a vent’anni di reclusione ciascuno.
Nel maggio del 2002 Šišić, dopo essersi recato in Ungheria, fu arrestato su ordine delle autorità ed estradato – stranamente, non in Croazia bensì in Italia, dove il 20 maggio 2003 fu condannato in primo grado all’ergastolo. “Una pena
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che, francamente, ci sembrò sproporzionata”, dice Mario Matta. “Ciò che fece lo fece perché qualcuno gli aveva dato un ordine preciso che, se non fosse stato rispettato, gli sarebbe costato la vita. Noi eravamo più interessati a vedere condannati gli alti ufficiali della catena di comando a terra”.
Nemmeno un anno dopo infatti, il 17 febbraio 2004, l’ergastolo venne ridotto in appello a 15 anni di reclusione, diventati definitivi il 2 novembre dello stesso anno con sentenza della Cassazione.
Sempre nel 2004 in Italia iniziò il processo nei confronti dei generali Blagoje Adžić e Ljubomir Bajić, del colonnello Božidar Martinović e del già citato tenente colonnello Dobrivoje Opačić, ovvero la famosa catena di comando a cui Šišić dovette obbedire. In maniera del tutto inaspettata, il 16 luglio 2008 i quattro furono assolti in primo grado “per non avere commesso il fatto”. La sentenza fu impugnata dai famigliari delle vittime che, il 22 maggio 2013, videro condannati a 28 anni il generale Bajić e a 20 anni il tenente colonnello Opačić. Fu invece assolto il colonnello Martinović, mentre il generale Adžić morì nel 2012. Dei due condannati soltanto Opačić fece ricorso in Cassazione, ma la Suprema Corte confermò la condanna in via definitiva il 14 settembre 2015.
Nel frattempo, nel 2006, Šišić fu estradato in Serbia, dove fu rimesso definitivamente in libertà il 9 maggio 2008. “Francamente non abbiamo mai compreso perché, durante il processo contro la catena di comando, un testimone chiave come il pilota potesse essere allontanato dal nostro Paese” commenta Mario Matta che, citando un articolo de “Il Tempo” apparso il 18 settembre 2003, lascia balenare il sospetto di un possibile accordo sotterraneo fra il governo italiano e quello di Belgrado.
Eroi europei dimenticati dall’Europa
“Da un punto di vista giudiziario, ci possiamo comunque considerare soddisfatti. La giustizia, sebbene dopo 23 anni, ha trionfato”, conclude Mario Matta. “Ciò che mi lascia un po’ di amaro in bocca è questo: Marco e i suoi commilitoni sono morti sotto le insegne della Comunità Europea, antenata di quell’Unione oggi così tanto vituperata e rimessa in discussione ma in cui Marco credeva fermamente. L’Unione Europea, però, pare essersi dimenticata di Marco e di coloro che sono caduti con lui”.
Questo articolo ha ricevuto una menzione d’onore alla X edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura
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