La sfida della Stella Michelin è restarne all’altezza. Ma senza prendersi troppo sul serio
di Lucilla Cremoni
“Max la Memoria aveva prenotato un tavolo per tre alla Credenza, dopo aver verificato se era consentito fumare. Per noi, ormai, era diventata una domanda d’obbligo. Aveva letto ottime recensioni su alcune guide specializzate e non vedeva l’ora di assaggiare la cucina di Giovanni Grasso, chef e proprietario del ristorante. Il locale era elegante e silenzioso, la gente chiacchierava piano, concentrata a deliziarsi il palato. Come sempre rimasi indeciso di fronte al menù e accettai i consigli dello chef. Max e Beniamino mangiarono di gusto iniziando dagli antipasti. Io mi accontentai di un filetto di manzo in salsa all’uvetta, zafferano e limone su purè di ceci…” (Massimo Carlotto, Il maestro di nodi, 2004).
Una viuzza tranquilla con distinte case d’epoca, un ingresso raffinato con pietre affioranti dall’ìntonaco, insegna sobria. Ti aspetti qualcosa di esclusivo, anche un po’ rarefatto, di cui non sei certo di essere all’altezza. Dopotutto è un ristorante stellato, cioè un posto che sta ai normali ristoranti-trattorie un po’ come le fuoriserie stanno alle auto da strada: da una parte la ricerca, la sperimentazione, l’innovazione, la creatività supportate da una tecnica altissima; dall’altra l’applicazione, con i risultati più disparati, di quella che in tempi più o meno prossimi è stata ricerca e innovazione ed ora è pratica abituale.
Ma il campanello è fatto a padella: elegante, ma pur sempre padella. Un tocco di umorismo che apre una nuova prospettiva. Dentro, gli spazi sono articolati in modo da essere avvolgenti e ariosi al tempo stesso, la luce scorre morbida sulle pareti, i tocchi di colore giusti al posto giusto. Una vetrata dà sul giardino interno, dove i clienti possono godersi un aperitivo prima di sedersi a tavola. Zen? Feng Shui? Chi lo sa. Un che di orientale c’è, del resto ormai non si contano più i viaggi e soggiorni professionali nel sud-est asiatico di Giovanni Grasso e Igor Macchia, quindi una qualche influenza sarebbe solo normale: “C’è gente che mi fa notare che il locale è orientaleggiante”, spiega Giovanni. “Vero in parte. Il punto è che a San Maurizio Canavese non c’è da valorizzare il mare o la montagna. Bisognava che, entrando qua, la gente potesse sentirsi in un ambiente in cui rilassarsi, quindi era fondamentale giocare sull’atmosfera, colori e forme”.
Fra Oriente e Canavese
Sarà anche orientaleggiante, ma i pannelli e i decori sono Sabbie del piemontesissimo Elio Garis, non lavori di artigiani orientali.
“Infatti. Il lavoro è fatto da amici e artisti che hanno capito lo spirito del progetto, la nostra filosofia e il nostro stile, zen o no che sia”.
Un altro tocco di autoironia ci accoglie dopo pochi metri, perché su una parete una serie di fotografie presenta lo staff della Credenza (lo si trova anche sul sito, www.ristorantelacredenza.it, e sul libro del ristorante). Nella fascia in basso, foto in bianco e nero di bambini: una mangia l’anguria, uno lecca il cucchiaio con la faccia sporca di cioccolato, un’altra trinca da una bottiglia, un altro si strafoga di spaghetti, mentre il primo della serie ha pochi mesi e non è per niente contento mentre gli fanno il bagnetto in una pentola. Nella fascia superiore, gli stessi ex bambini sono ripresi mentre fanno più o meno le stesse cose, e il bimbo che frignava nella pentola adesso siede nudo e roseo in una pentola (molto più grande) e non frigna, anzi ha l’aria di divertirsi un mondo.
Insomma, niente pose plastiche e salmoni a coprir le pudenda, ma “The Naked Chef” secondo Giovanni Grasso…
Ride di gusto. “Nel libro, la prima foto è istituzionale, siamo tutti vestiti e sistemati per bene, ma in chiusura abbiamo voluto farci vedere per quello che siamo. Nella foto io avevo due mesi ed ero dentro la pentola, e possiamo vederla come “dalla padella alla brace”, oppure come “il re è nudo”. Abbiamo voluto giocare, non prenderci troppo sul serio. Anche perché credo che la nostra funzione sia sì cercare l’eccellenza e tutto quanto, ma insomma noi non salviamo la vita a nessuno, cerchiamo solo di renderla più piacevole, e questo vuol dire essere noi per primi contenti di quel che facciamo”
Non atteggiarsi a Grandi Sacerdoti della Cucina insomma…
“No, infatti. Cioè, lavoriamo tantissimo, dedichiamo tantissimo tempo, sacrifichiamo tante cose – famiglia, amici, tempo libero, è un lavoro durissimo – ma vedere il cliente soddisfatto, che torna o dice di aver ricevuto un’emozione, è il coronamento dei tuoi sforzi, un po’ come per gli artisti l’applauso finale. Importante non in se stesso, ma perché vedi che il messaggio è passato, sei riuscito a comunicare quello che volevi, il lavoro aveva un senso”.
Tu hai cominciato con la scuola alberghiera o sei un autodidatta?
“Ho cominciato con l’alberghiero senza neanche sapere cosa volesse dire esattamente; sono il settimo di otto figli, ognuno dei quali ha fatto una strada diversa – chi l’ingegnere, chi il geometra, chi il falegname, chi l’insegnante. Ho fatto l’alberghiero senza ben sapere perché, forse perché c’erano più pratica e manualità, e poche ore sui libri. Una volta dentro, mi son detto “cavolo, che lavoro duro che ho scelto”, però ho trovato anche persone che mi hanno appassionato e fatto vedere quanto questo lavoro fosse bellissimo, soprattutto mi hanno fatto capire che questo lavoro o lo fai bene, con passione, oppure è meglio che cambi strada. Non ha senso fare tanti sacrifici, ma se lo fai bene il senso c’è”.
E poi?
“Io non sono un grande cuoco, ho sempre cercato di fare bene quello che m’insegnavano e mi dicevano di fare. Ho cominciato da lavapiatti a 15 anni a fare la stagione al Gran San Bernardo, tre mesi l’anno a capire cosa vuol dire star da soli, non avere la mamma dietro che ti sistema, lavorare 15 ore al giorno, per poi passare aiuto cuoco, fare la gavetta e quindi avere lo spazio per gestire una partita. Ho fatto diverse esperienze a Torino e a livello regionale, dal BIT a Giudice. La svolta è stata quando ho fatto cinque anni alla Gastronomia Gallo, dove c’era un modo di lavorare importante, si dovevano curare tutti i dettagli inclusa la presentazione, si andava a fare i catering nelle ville e bisognava anche presentarsi bene con gli ospiti, e lì ho capito cosa fosse l’eccellenza”.
Una bella gavetta, appunto…
“Poi mi sono messo in proprio con un grande amico, cuoco di quello che allora era il più famoso ristorante della collina, quindi sono andato all’Antica Zecca, che all’epoca aveva una stella Michelin. Era il periodo dei Mondiali del ’90, abbiamo lavorato per la Germania e l’Argentina, dopodiché mi hanno chiesto di rimanere per un progetto che ha portato ad aprire questo locale nel gennaio del ’91. Sono venuto a gestirlo dandogli un taglio di trattoria di lusso, o comunque ristorantino per intenditori ma non esclusivo. Si doveva lavorare con dei budget ben precisi e quindi, per necessità ma anche per una mia inclinazione, abbiamo incominciato a investire sui giovani, su ragazzi che avessero voglia di sopportarmi. Ho inserito un primo stagista, poi nel ’92-’93 sono stato chiamato a Singapore per fare una promozione di cucina piemontese. Incoscientemente ho accettato senza neanche sapere bene dove fosse Singapore, e allo Hyatt Hotel locale ho di colpo scoperto come funzionava il mondo”.
Cioè?
“Ventidue anni fa ho scoperto i miei limiti, incontrato persone che avevano conoscenze e capacità enormi a livello organizzativo e lavorativo, e questo mi ha aperto gli occhi e fatto capire che dovevo cercare di crescere, che non mi dovevo credere arrivato ma ero una pulce. Ho compreso il mio gap culturale, dall’inglese all’organizzazione, che voleva dire ad esempio compilare le ricette, codificarle, inviarle – in un periodo in cui Internet e il computer ancora non si usavano. Sono solo vent’anni fa ma sembra, ed è, un’altra epoca. Non solo si usava ancora la macchina per scrivere, ma si viaggiava ancora su “quanto basta” e “a occhio”, insomma era ancora tutto molto empirico”.
Una rivoluzione soprattutto nell’approccio alla professione, quindi…
“Ho visto dei sistemi che ho cercato di portare qui, ho capito che l’organizzazione era la base della cucina. L’anno successivo ho ripetuto l’esperienza, ma non potendola far coincidere col periodo di chiusura per ferie del ristorante ho lasciato qui due ragazzi che già lavoravano da noi e ho inserito un altro ragazzo, che era un compagno di classe all’alberghiero di uno di loro. Quel ragazzino era Igor Macchia, che aveva appena finito la scuola. Quando chiamavo, mia moglie mi raccontava quanto i ragazzi si sentissero responsabilizzati e fossero pieni di voglia di fare: ricordo di quando mi raccontò che avevano fatto dei mini croissant da servire con la pasticceria! Questo mi ha fatto capireancora di più l’importanza dell’organizzazione, ed è stata la svolta della Credenza. Ho chiesto a Igor se voleva continuare con me e preso un altro ragazzo per ampliare la nostra squadra. Questo mi poteva permettere anche di fare un po’ di pasticceria, che fino ad allora era inclusa nella cucina ed era però inevitabilmente l’ultima cosa da curare, chi aveva tempo lo faceva. Uno spazio da sviluppare affidato a Igor”.
Che nel frattempo è passato a salutarci, quindi ne approfittiamo per approfondire il discorso. Igor, cosa vuol dire la pasticceria in un ristorante?
“Un problema in più!”, ride. “No, seriamente, vuol dire una cosa che il cliente ricorda, perché è l’ultimo momento di un pasto, ma a quel punto è già abbastanza sazio, quindi bisogna fare qualcosa che sia leggero ma sfizioso e che lo tenti. Per me è un divertimento, io ho iniziato con la pasticceria quindi per me fare un dolce è sempre un piacere. Pasticceria o gelato, tutto quello che è il mondo dolce, perché mi piace l’approccio “uno più uno uguale due”, mentre in cucina c’è più libertà, a volte anche troppa, uno più uno in cucina non fa sempre due, a volte fa due e mezzo, o due e tre quarti, mentre in pasticceria non si può sgarrare. Cerchiamo di farlo anche in cucina per avere cose che possano essere fatte un po’ da tutti nel modo giusto”.
Ci sono degli abbinamenti particolari fra un tipo di menù e il tipo di pasticceria proposta?
“Diciamo che abbiamo la carta classica dei dolci, ma diamo anche la possibilità di scegliere un percorso di tre o quattro assaggi che si chiama Carta Bianca, anche perché la gente di solito preferisce assaggiare più tipi di dolce. E i nostri dolci sono proposti in porzioni piccole, non a tagli, c’è uno studio anche dietro questa degustazione”.
Igor torna al lavoro, sono da poco passate le 10 del mattino e bisogna organizzare la cucina. Prendiamo un caffè, che Giovanni accompagna con una merendina da supermercato (ebbene sì, gli chef stellati mangiano come i comuni mortali!) spiegandoci che la notte precedente hanno finito di lavorare alle due, alle sette erano al mercato a comprare il pesce, e non ha ancora avuto tempo di fare colazione. No, decisamente non è un lavoro leggero…
… ma torniamo a Igor
“Da lì le cose si sono sviluppate, con la frequentazione di un corso di pasticceria e cioccolateria, poi siamo andati due anni a fare una promozione estiva in India, dove i ragazzi hanno potuto conoscere realtà nuove. Abbiamo inserito Chiara, che è di Caselle e aveva già fatto degli stage qui. Questa squadretta di ragazzini è cresciuta, Igor si è staccato per un anno per andare a fare esperienze in Germania e in Belgio. Staccarsi e andarsi a confrontare con altri contesti è fondamentale perché ti aiuta a capire i tuoi limiti e le tue lacune e a vedere come e dove crescere, ad affrontare le cose con molta più serenità. Tornato Igor, nel 2004-2005 abbiamo fatto un ulteriore passo, e il progetto che ne è nato ci ha portati a conseguire la stella nel 2006. Ma ci mancava una crescita simile per la sala. I ragazzi, ormai autonomi, mi hanno detto “Giovanni, visto che tanto sei spesso in giro, vai in sala a occuparti dei clienti, lasciaci lavorare… togliti dai piedi!” (se la ride). Questo mi ha permesso di diventare il regista, ma dalla sala, e gestire il rapporto fra la cucina e il cliente: spiegare il piatto, trasmettere l’emozione, personalizzare l’esperienza. E ho potuto vedere la cucina da una prospettiva diversa, curare aspetti che dall’interno non vedevo. Mia moglie è sommelier professionista, ho fatto i corsi e lo sono diventato anch’io. Non per avere le stellette e fare il figo, ma per essere in grado di consigliare i clienti, che sono sempre più competenti, senza dover passare la palla a qualcun altro e interrompere il dialogo”.
La domanda viene da sé: dopo la stella cosa è cambiato?
“La stella può essere molto pericolosa. Nei primi tre mesi sei in una lavatrice, tutti ti vogliono giudicare per vedere se te la meriti, e puoi perdere l’orientamento o almeno essere fortemente condizionato. Poi vengono per provare il ristorante e al caso inserirlo nella loro mappa. Alla fine vengono per star bene. Diciamo che i primi sei mesi sono difficilissimi, come tutti i grandi cambiamenti. Sta poi a te, non inteso come singolo ma come tutto il gruppo, mantenere la tua identità e il tuo progetto. È una tempesta positiva, ma se non hai solide basi rischi di trovarti su una nuova rotta che non è detto che sia quella giusta. Poi, noi siamo stellati a Torino, dove ci sono parecchi stellati e la clientela è molto competente ed esigente, quindi devi anche saperti confrontare con le realtà locali e i personaggi che ti sono di esempio, continuare a migliorarti. Non tanto per arrivare a due stelle, ma per restare all’altezza. Come nello sport, nel momento in cui ti dici “io questo non so farlo o non ci provo”, allora cominci ad arretrare”.
Investire e condividere
“Abbiamo continuato a investire nel ristorante, anche nei momenti difficili. Non abbiamo mai smesso di andare all’estero anche con soggiorni lunghi, e nel 2011 abbiamo aperto un ristorante a Taipei; la crescita di Chiara come pasticcera – due anni fa è stata premiata come pasticcera dell’anno a Identità Golose – ha permesso a Igor di focalizzarsi sempre di più sulla ricerca e sull’estero, dove ormai passa cinque o sei mesi l’anno; da quattro anni curiamo la Vip Lounge degli ATP di tennis di Shanghai, che è il più importante torneo asiatico di tennis, e questo ci permette anche di continuare a rinnovare e rinforzare il vivaio di giovani. Abbiamo fatto ricerca e sviluppo anche sul fronte gelati, collaborando con Alberto Marchetti nel portare il gelato nella ristorazione e viceversa. Crescendo assieme: Igor è con me da diciannove anni, Chiara da quindici, Ivan da sette. Questo ci ha portati ad essere, più che competitivi, aggiornati. Tuttora non smettiamo di fare ricerca: sui ragazzi, sulla materia prima. Una volta nella ristorazione bastava fare un menù fantastico, avere due-tre piatti importantissimi e la gente veniva da tutta Italia per mangiare quelli. Adesso con internet e l’evoluzione della ristorazione se non hai un menù stagionale e aggiornato sei già vecchio, la gente viene, prova, e poi va altrove. Se vuoi fidelizzare il cliente devi andare oltre il piatto, devi puntare sul servizio, sull’aggiornamento. Devi andare, come abbiamo fatto prima io e poi Igor, a San Sebastian a congresso con altri cinquemila cuochi che mettono in comune le proprie conoscenze. Questa condivisione è splendida, perché se ti metti a disposizione e dai, poi ricevi”.
Purtroppo non è sempre così, c’è ancora l’atteggiamento della “ricetta segreta”…
“O del copiare le ricette altrui: ma se tu copi una ricetta a un altro hai già perso. Devi prendere uno spunto per poi fare qualcosa di tuo. I libri di storia o di scienza sono fatti di cose che altri hanno imparato e poi condiviso. L’importante è avere una propria identità: soprattutto in un momento di crisi, il lavoro si mantiene grazie all’identità. L’errore è voler fare tutto: il ristorante che vuol fare il bar e viceversa, quello che vuol fare contemporaneamente trattoria da venti euro e ristorante da cento”.
Quanto è importante il confronto?
“Il confronto è la base di tutto. Una cosa che facciamo da sempre è non solo uscire e andare all’estero a lavorare, ma anche fare i clienti. Se tu non fai il cliente, non ti siedi al tavolo, non puoi capire una serie di cose, perché da quella prospettiva puoi vedere cose che dall’interno non vedi e anche questo ti aiuta a sviluppare una tua identità, il tuo progetto. E io penso che, soprattutto in questo momento, la cosa più importante sia avere un progetto e un’identità, e questo ti aiuta anche nei momenti difficili”
Hai parlato soprattutto dei rapporti con l’Asia – Singapore, Taiwan, India – tutti posti con una tradizione culinaria antichissima ed eccezionale. Se e come vi influenza questa tradizione?
“Diciamo che in molti casi ci siamo dovuti adattare a delle situazioni, il che ci ha resi più elastici e più in grado di capire il cliente – non nel senso di accontentarlo a tutti i costi, ma di creare una propria identità partendo dal cliente che si ha davanti. E poi, l’opportunità di confrontarsi con tantissimi chef a livello internazionale – non solo asiatici ovviamente, perché si parla di grandi alberghi internazionali – ha permesso di apprendere nuove tecniche, di conoscere ingredienti nuovi o usare in modo diverso ingredienti noti. Ad esempio il rafano, che io avevo sempre trascurato, ma in Oriente ha usi che mi hanno aperto la mente. Una crescita anche mentale e culturale”.
Una crescita graduale e solida però, non un botto.
“Tasselli che si sono messi assieme uno alla volta e ci hanno permesso di arrivare a una cucina codificata, con menù stagionali. Tutti i piatti vengono provati mesi prima, assaggiati, confrontati, migliorati, discussi, perfezionati. Una volta raggiunto il risultato, vengono codificati (dosi, pesi, cotture), scritti, fotografati. Una volta approvati, sono messi in produzione. Questo fa crescere tutti perché consente di delegare, e quindi concentrarsi anche su altre cose”.
“Fusion, not Confusion”
“È una vecchia fras che a volte viene male intepretata, ad esempio da chi dice che in un piatto ci deve essere un solo ingrediente importante, due son già troppi. Io penso che sia come la musica, ci possono stare un solista o una grande orchestra, basta che ci sia una logica. La fusione e contaminazione di ingredienti è fondamentale. Soprattutto, più informazione hai, più cultura hai, meglio è”.
Igor prima diceva che una cosa che i ragazzi dovrebbero imparare a scuola sono gli ingredienti, capire che un piatto fatto con un ingrediente qualsiasi è una cosa, un piatto fatto con ingredienti di qualità è un’altra cosa. Lo vediamo ogni anno al Premio Giovani Chef Piemonte, della cui giuria fai parte…“Come giudice, quindi assaggiatore, ho visto ad esempio la ricerca dello zafferano, dell’aglio, insomma ho visto che quando i ragazzi vengono motivati sulla ricerca vengono fuori le cose più belle, tipo un ragazzo che è andato a raccogliersi i girasoli e altri casi simli. E son cose che poi sono venute fuori nel piatto. Se tu vai, conosci il produttore, la storia del prodotto, le sue caratteristiche e storia, riesci anche a valorizzarlo nel modo giusto e a trasmettere questi valori al cliente. Crei una filiera. Ovvio che anche questo è un impegno perché occupa i già pochi momenti liberi, vuol dire dedicare il giorno di chiusura ai fornitori, andare a visitare cantine o ristoranti o portarci i ragazzi, essere sempre in servizio”.
Atteggiarsi non basta
Purtroppo una tendenza diffusa, che è anche conseguenza del boom della cucina in tivù, è quella che si può descrivere come “fare i gesti da direttore d’orchestra” senza rendersi conto che sono frutto di anni di studio e lavoro…
“Succede anche nel calcio, coi ragazzi che si atteggiano a campioncini nelle giovanili senza conoscere le basi, o non vogliono fare gli allenamenti perché pensano che il calcio sia miliardi e fuoriserie. La televisione ci ha portato grande fama, ci ha dato un pubblico amplissimo, e le scuole sono piene di ragazzini che vanno a lavorare al ristorante senza sapere cosa vuol dire fare fatica. Ma fa parte del gioco. Gualtiero Marchesi ci ha portati fuori dalla cucina, ci ha per così dire messo una giacca da smoking su quella da cucina; Vissani ci ha messi in televisione e adesso abbiamo una mediaticità enorme. Ma quello che mi preoccupa è che si bruciano delle tappe, abbiamo ragazzi che vogliono essere chef a 24-25 anni, che magari sono bravi tecnici ma non hanno quel qualcosa che va oltre la ricetta o la cucina, ed è la capacità di gestire situazioni e periodi, di creare un ambiente, tutte cose che richiedono esperienza. Ma come in tutte le cose bisogna cercarne il lato positivo: è anche vero che oggi molti ragazzini, grazie alla televisione e ai Masterchef, vengono al ristorante e chiedono piatti di cui solo fino a qualche anno fa ignoravano l’esistenza, ci sono ragazzini di 10-11 anni che scorrono la carta come dei veterani. Stiamo creando dei mostri, ma anche un nuovo rispetto da parte della gente. Il vero problema è cheadesso tutti vogliono fare i cuochi e nessuno vuol fare il cameriere. C’è una fortissima carenza di buon personale di sala, e il lavoro della sala è fondamentale, perché non è solo portare e ritirare i piatti ma è saper gestire il cliente, creare l’atmosfera, essere servizievoli ma non servili”
Oggi molti aprono ristoranti o locali, magari provenendo da carriere diverse, per scelta più o meno obbligata. Che consiglio daresti a queste persone?
“Io ho aperto nel ’91, quando era già passato il tempo in cui chi aveva un ristorante riusciva ad accumulare proprietà e denaro, e poi ci sono state crisi e cambiamenti epocali. Fare ristorazione adesso più che mai è difficile, devi avere competenze che non si limitano alla ristorazione: devi saper gestire un’attività, essere imprenditore. Non puoi permetterti di sbagliare. Non basta dire “mi metto in proprio”: devi studiare, conoscere, adattarti, avere capacità finanziarie e intellettuali. E se sbagli una volta sei bruciato. Una volta bastava fare attenzione al food cost e avevi i risultati, adesso devi fare attenzione a diecimila altre cose, quindi il consiglio che do è: crescere professionalmente, e una volta cresciuti e accumulata esperienza farlo, ma al momento giusto. Se diventi imprenditore troppo presto, rischi che ti manchino delle basi che possono essere indispensabili per affrontare certe cose. Ma chi vuole farlo seriamente deve farlo con calma. Perché c’è poco da fare, la gente sa riconoscere i posti che valgono”
Il punto è avere le dee chiare prima di aprire, non aprire e poi vedere come butta
“Esattamente. Avere un progetto. E condividerlo, avere un sostegno. Ripeto: senza Igor o senza Chiara io non avrei fatto niente di tutto questo”
Ammettere una cosa del genere non è cosa da poco
“Ma no, l’importante è che ognuno sappia quello che deve fare, e metta le sue capacità a disposizione della gente con cui lavora. Se riesci a fare questo hai una squadra vincente. Un problema tipicamente italiano è evidenziare sempre i difetti degli altri e mai i pregi: invece, se si evidenziano e valorizzano i pregi, si fa bella figura tutti. E se metto un ragazzo nel posto giusto ottengo anche più di quello che lui sa fare, perché aumenta il risultato complessivo”
E “Il maestro di nodi”?
“Massimo Carlotto era venuto a cena una sera. Io sapevo che faceva lo scrittore, ma non che scrivesse gialli. Che abbia dedicato una pagina a questa sua sosta culinaria è una bella soddisfazione, vuol dire che siamo riusciti a dare un’emozione duratura. E poi è bello essere in un giallo, raccontati e descritti perfettamente inclusi il menù e il bicchiere di Calvados alla fine, senza aver ammazzato nessuno!”.