Sanscrito e filosofia indiana in Piemonte
di Alessandro Granatelli e Tiziano F. Ottobrini
“Io sono un cittadino europeo, nato per combinazione in Italia”: pronunciando queste parole profetiche e paradossali, nel maggio del 1935 si lasciava arrestare a Torino il teoreta canavesano Piero Martinetti, unico filosofo tra i dodici accademici italiani che – soli – osarono rifiutarsi di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo nel 1931. Figura singolare di libero pensatore e accademico eticamente impegnato, Martinetti si presenta come un chiaro esempio di intellettuale capace di influire sul clima culturale piemontese nella stessa misura nella quale quest’ultimo abbia influito su di lui, in un mirabile equilibrio di scambio di idee e impulso all’azione.
Nativo di Pont Canavese (1872), dopo la maturità classica a Ivrea si laureò nel 1893 a Torino con una tesi esoticamente dedicata alla filosofia dell’India antica: Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana. Un lavoro rivoluzionario non solo per quel tempo, e destinato a segnare profondamente l’intera esperienza personale di Martinetti e gli ambienti intellettuali piemontesi di quegli anni. Questa dissertazione portava nella tradizione culturale sabauda di fine Ottocento il sole e la sensualità dell’India che il suo autore aveva incontrato e tormentosamente amato nel semestre di studi di lingua e letteratura sanscrita trascorso presso l’università di Lipsia.
Oggi pressoché dimenticato, Martinetti può a buon diritto essere considerato lo Schopenhauer italiano, grazie alla mediazione che operò fra la filosofia allora praticata in Germania e in Italia (soprattutto la linea dell’idealismo post-kantiano, con forte ripresa di suggestioni platoniche) e l’afflato mistico e al contempo razionale che promanava dalla filosofia sankhya, che influì sul giovane Martinetti come un colorato vento primaverile sul ghiaccio del rigore sistematico di molta della dialettica di derivazione hegeliana. Proprio questo è stato il punto in cui Martinetti seppe inserirsi con maggior profitto, favorendo l’incontro e/o l’avvicinamento di queste due linee di pensiero, fino ad allora estranee l’una all’altra: come scrisse Augusto Del Noce, con Martinetti Oriente e Occidente “convergono nei prati di Castellamonte” nella prospettiva di forgiare una nuova filosofia eclettica al cui centro si erge imperiosa la persona nella sua individualità irriducibile. Il nucleo della sapienza sankhya, riassumibile nel dualismo ontologico fra il mondo dell’esperienza e la gelosa tendenza all’Assoluto, incontrò nell’anima delicata e al tempo stesso infiammata di Martinetti un adatto, sensibile e degno ricettore, proteso a far germogliare in un clima nuovo il frutto del sapere antico.
Prima ancora dei risultati strettamente filosofici, questa adesione alla dottrina indiana si manifestava in Martinetti nella sua innovativa riflessione sulla dignità degli animali: negli scritti La psiche degli animali e Pietà verso gli animali, infatti, fondò in Italia un’etica animalistica, muovendo da una sensibilità di amore verso tutti i viventi che aveva attinto proprio dalla cultura indiana; scopo dell’uomo deve configurarsi lo slancio verso la felicità di ogni forma di vita, nelle diverse forme di coscienza e intelligenza di cui sono capaci. In questi termini, dunque, ogni animale è elevato in dignità fino a meritare non solo rispetto ma anche la partecipazione a un sistema etico argomentativamente fondato.
Vigorosi accenti di questa fascinazione della ricerca sankhya verso l’unità sovratemporale dell’essere non potevano non emergere anche nella vita privata di Martinetti: avvertì tra i primi la necessità di virare verso un regime alimentare rigorosamente vegetariano come coerente conseguenza dell’impegno di carità verso tutte le manifestazioni di vita, raggi dorati di un unico sole. Allo stesso modo, maturò il convincimento di sottrarsi alla tumulazione preferendole la cremazione, che intendeva come un ritorno del simile al simile alla maniera della tradizione vedica: la cenere del suo corpo sarebbe in questo modo tornata alla terra della Natura (prakrti), così da ricostituire il ciclo cosmico infinito della vita (samsara).
Un affresco evocativo della sua personalità è stato dipinto magistralmente dai contributi della Giornata Martinettiana celebrata proprio a Torino il 22 marzo 1993: il filosofo è emerso come ampiamente rivalutato dal cono d’ombra in cui Benedetto Croce lo aveva di fatto relegato (“Martinetti non superò in filosofia le linee della comune filosofia accademica ottocentesca”), cogliendo le direttrici della sua produzione nel tentativo ardito di guadagnare una posizione libera dallo hegelismo piemontese imperante in quegli anni, nella declinazione professata soprattutto da un altro torinese quale Pietro Ceretti.
In questa tensione verso un orizzonte filosofico nuovo, l’influenza della letteratura sanscrita è solo una delle fonti di Martinetti, che seppe avvertire nei colori di Tolstoj una tensione spirituale intrinsecamente simile alle domande che lancinavano il suo spirito. In Martinetti affiora con forza una forma di idealismo religioso volto a cercare salvezza e trascendenza nell’esperienza del quotidiano, in cui gli affetti e la sete di salvezza si sublimano in un abbraccio inviolabile al Tempo. L’altro cuore nascosto di Martinetti è l’estetismo elegiaco di Stendhal, del cui scritto De l’amour si rivela fine interprete, individuando nella psicologia femminile un riverbero cosmico e religioso della progressione all’infinito che è il desiderio umano.
La grammatica della bellezza è stata la disciplina cui Martinetti ha inteso votarsi, facendo della filosofia la chiave interpretativa di ogni singolo giorno. Tanto sincera è stata la convinzione verso gli ideali di libertà da non farlo vacillare nemmeno davanti alle lusinghe del regime fascista: nel 1923 respinse con decisione l’offerta connivente di accedere alla Reale Accademia dei Lincei in qualità di socio corrispondente: episodio massimo in cui Martinetti dimostrò di essere filosofo nella prassi della vita prima ancora che nell’esercizio intellettuale.
“Uno dei tratti più curiosi – scriveva un altro spirito grande, Augusto Del Noce – e sinora, a mia conoscenza, mai indagati dell’Ottocento piemontese è appunto l’interesse per l’Oriente”: Martinetti (morto fedele alla terra piemontese, a Cuorgnè, nel 1943) fu il primo cultore in Piemonte del fiotto di luce sapienziale che proveniva dalla filosofia dell’India antica. Si attende che nuovi studiosi sappiano disseppelirne e onorarne la memoria dalle carte conservate presso la Fondazione omonima nell’archivio personale di Spineto.
Questo articolo ha ricevuto una menzione all’ottava edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Turismo