Quei ragazziPaolo Barucco e il Torino FD for Disabled
intervista di Nico Ivaldi
“Ci danno molta più soddisfazione quei ragazzi che non la prima squadra!”
La battuta – soltanto una battuta? – circola fra i tifosi del Torino, delusi da una stagione che sembrava nata sotto i migliori auspici (nelle prime giornate i ragazzi di Ventura guardavano dall’alto al basso i cugini bianconeri, autori di una partenza col freno tirato).
“Quei ragazzi” indicati ad esempio sono i giocatori disabili che, proprio con i colori granata, hanno vinto scudetti e coppe europee: perfino due Champions contro il Chelsea, e scusate se è poco!
Per raccontare questo miracolo sportivo non esiste persona più indicata di Paolo Barucco, classe 1962, cuore Toro da sempre, ex giocatore della Primavera sotto la guida di Sergio Vatta (“mi ha fatto crescere come uomo prima ancora che come calciatore”, ricorda Barucco, “siamo in tanti a dovergli qualcosa, lo considero il mio secondo padre”). Poi un brutto infortunio ne ha interrotto una carriera quando militava nel Savona in serie C. Oggi è un affermato professionista ed è l’allenatore di una compagine formidabile che miete successi ovunque.
Come sei arrivato ad allenare i disabili?
“Otto anni fa ero occupato dalla campagna per il Filadelfia, dove lavoravo come consulente finanziario. Un giorno vengo avvicinato da Claudio Girardi, attuale presidente del Torino FD For Disabled, che mi chiede se sono disposto ad allenare i suoi ragazzi, disabili fisici, mentali, relazionali e sordomuti. Quello del Toro era, e forse lo è ancora, l’unico progetto europeo nel quale queste persone problematiche giocavano tutte insieme. Naturalmente ho accettato”.
Come è stato l’approccio con questo mondo sportivo molto particolare?
“Inizialmente ho commesso qualche errore, perché pensavo di poter allenare questi ragazzi come se fossero persone normali e pertanto puntavo soltanto alla vittoria. Sbagliavo, ero troppo mister in tutti i sensi. Non era quello il messaggio che volevo e dovevo lanciare, il messaggio giusto era di aggregare i ragazzi, stimolarli in un progetto che non fosse soltanto agonistico. Anche se so bene che se volevamo vincere contro il Chelsea dovevamo giocare con i migliori, e lasciare in panchina gli altri”.
Non eri solamente un allenatore, ma anche uno psicologo e forse un padre..
“Certo. Dovevo anche capire, in base alla disabilità del giocatore, quale posto più adeguato dovevo dargli sul campo. Per esempio il mio capitano Alessandro Genta, dotato di un gran tocco di palla, aveva problemi a correre; ebbene, l’ho messo a fare il regista. A Toni Romeo, la più grande punta che abbia mai avuto, dalle notevoli doti acrobatiche, mancava un braccio. Avevo paura che ogni volta cadesse, ma lui sopperiva al peso mancante inclinandosi. Pensa che non l’ho mai visto a terra…”
Nonostante tutto, vi siete tolti delle belle soddisfazioni…
“Le due Champions, intanto. E poi c’è stata quella volta al Ruffini, cinque anni fa, durante il quadrangolare con Chelsea, Monaco e Barcelona, una rivincita della Champions che avevamo perso in finale contro i francesi. Arrivammo secondi sconfitti ai rigori ancora contro il Monaco, davanti a un pubblico di tremila spettatori. Ma quel giorno lo ricordo molto bene anche perché cominciai la nuova avventura con la squadra di calcio del Gruppo Sportivo Sordi Torino, attivo fin dal 1929. E continuo tuttora”.
Come sta andando?
“La prima volta sembravamo un’armata Brancaleone. Oggi con loro faccio riunioni tecniche anche di due o tre ore e sai come faccio a farmi capire? Con le incazzature: é un linguaggio universale. Scherzi a parte, ma nemmeno poi tanto, penso di essere l’unico allenatore non sordomuto che si è messo in gioco pur non conoscendo il linguaggio dei segni. Ormai con i ragazzi ci capiamo, c’è un’intesa davvero profonda.”
Che tipo di allenatore ti ritieni?
“Mi ispiro ad Ancelotti, un mister molto pacato, ma al tempo stesso duro quando le cose vanno male. Dai miei giocatori pretendo il massimo e sono sicuro che se non mi comportassi così, loro stessi non mi vorrebbero. Devi trattarli come atleti normali”.
E i ragazzi che cosa pensano di te?
“Sanno bene che quando entriamo in campo abbiamo già vinto la nostra partita. Sono consapevoli che tutto quello che facciamo non è facile. Sembra una frase canonica, ma mai come in questo caso è vera ”.
Quando sei riuscito a creare una squadra vincente?
“Dopo la sconfitta con il Siena padrone di casa in finale ai Campionati Nazionali. Da quella sconfitta, maturata negli ultimi minuti dalla fine, abbiamo capito che potevamo fare grandi cose in futuro. Ci ho messo molto del mio perché ho potuto avere i giocatori che avevo chiesto alla società, cosa che l’hanno prima non avevo potuto fare. Ho diversi ragazzi che arrivano da fuori regione, di torinesi ne ho soltanto tre. E alcuni giocano in prima categoria”.
E come fate per gli allenamenti con gli “stranieri”?
“Ci organizziamo con degli stage, come fa la Nazionale di serie A. Durante l’anno i ragazzi si attengono ad un apposito programma di allenamento”.
Vogliamo fare i nomi di qualcuno dei tuoi ragazzi?
“Molto volentieri. Il primo è Mauro Grotto, il capitano, vicentino, ho massima fiducia in lui. Quest’anno ha avuto un grosso problema, il suo cuore si è fermato, gli hanno messo un pace-maker, pensava di non giocare più a pallone. Poi ha avuto l’idoneità. Ha trentaquattro anni e una volontà di ferro. Senza il pallone muore. Un altro mio pupillo è Iacopo Mannari, di Firenze. Abbiamo un rapporto molto forte, è un giocatore molto tecnico, un esterno di centrocampo, a volte anche ala sinistra, dal forte tiro. E poi voglio citare Christian Biasi, di Pinerolo, seconda punta, contro la Russia in Nazionale si è infortunato ai crociati, è ritornato in rosa dopo otto mesi. Anche lui è un ragazzo dalle forti motivazioni”.Paolo, pensi che ci sia un futuro per il calcio dei disabili, nel nostro Paese?
“Stiamo migliorando, anche se sarà difficile arrivare ai livelli di società come il Chelsea, che ha tecnici stipendiati dalla società affiancati da psicologi e progetti a lungo termine. O come il Monaco, che investe molto sullo sport dei disabili. Nel nostro paese Torino è all’avanguardia, speriamo che il nostro esempio sia imitato al più presto”.
Inutile sottolineare che non percepisci stipendio, come mister…
“È volontariato pieno, il mio”.
Che cosa ti ha dato e che costa ti sta dando questa tua attività?
“Innanzi tutto mi permette di vedere il calcio, quello importante, sotto altri occhi, anche se resto un grande tifoso della mia squadra. E poi da questi ragazzi continuo a ricevere gratificazioni, l’ultima delle quali quando sono stato colpito da un brutto male; in quell’occasione i ragazzi mi sono stati vicini in una maniera incredibile. In questo questo mondo di persone silenziose ho capito di non essere mai solo”.