Roberto Sacchetti, promessa mancata della Scapigliatura piemontese
di Filippo Buccheri
Nel lontano marzo 1881 si spegneva a Roma una delle grandi promesse mancate della letteratura piemontese.
Roberto Sacchetti era nato a Torino, dove aveva avviato plurime carriere tra cui anche quella di romanziere, e il suo breve e travagliato trascorso si concluse nella allora recentissima capitale del neonato Regno d’Italia all’età di 34 anni. All’epoca gli italiani da nord a sud si sbizzarrivano: c’era chi si concentrava sulla politica nazionale e si chiedeva cosa fosse una nazione, chi non capiva come applicare le leggi sabaude alle controversie contadine della Sicilia, chi era convinto che la storia procedesse in linea retta verso un fine positivo. E chi, in letteratura, rigettava totalmente la tradizione per accogliere una contemporaneità evanescente.
In quest’ultima categoria scelse di farsi strada Sacchetti, aderendo al movimento della Scapigliatura, che rappresentò l’equivalente italiano, soprattutto torinese e milanese, della bohème francese. Per breve tempo gli Scapigliati – la cui fioritura non fece in tempo a a maturare i propri frutti che già era appassita e soppiantata da altre novità – si prodigarono nel rigetto del passato, ritenuto polveroso ed insapore come una minestra spesso riscaldata, e predilessero contenuti come il grottesco, l’orrido, la sperimentazione linguistica e formale, il visionario e l’onirico nonché il mistero e le passioni recondite.
In questo pastiche culturale sembra facile poter pensare ad un infinito numero di novelle, racconti o anche solo fantasie letterarie da creare totalmente ex-novo; tuttavia, si sa, non è mai immediato il passaggio dalla smodata immaginazione all’opera in concreto. Il caso di Roberto Sacchetti ci aiuta a comprendere quanto travagliata possa essere l’attività di uno scrittore che vive in un’epoca all’insegna dell’innovazione e del cambiamento, il cui punto di sbocco risulta ignoto generando vertigine e disorientamento.
L’opera di riferimento è un romanzo marginale, che l’autore scrisse presumibilmente nel suo peregrinare tra Torino e Milano per motivi di lavoro (anche allora esistevano i pendolari, pubblicato due anni prima della sua morte e intitolato Candaule.
Chi era Candaule e cosa c’entra con il romanzo?
La risposta è prontamente data ad entrambi i quesiti: Candaule fu un ricco e potente re della Lidia vissuto nell’VIII secolo a.C. e con il romanzo non c’entra proprio nulla.
Già il titolo era il guanto di sfida con cui il giovane torinese volle urtare la sensibilità letteraria sabauda e il rigore regio dei nobili che affollavano i raffinati salotti barocchi e rococò della ormai soppiantata capitale. Ma, procedendo con l’opera, si scopre che sotto questo titolo evocativo, che trasporta la mente ad un’epoca mitica e in una calda terra lontana dal sapore esotico, si cela un dramma domestico fatto di tradimenti, pudore infranto, sesso, omicidio e pazzia.
La storia narra di una donna meravigliosa sposata a un ricco uomo d’affari che spende il suo tempo al club dei nobili, vantandosi dei propri beni e soprattutto della bellezza della sua donna, con la quale però non specifica che la situazione è come quella degli odierni separati in casa. Come sovente accade agli uomini che alzano un po’ il gomito, una notte il barone compie un gesto sconsiderato e decide di mostrare le grazie della propria signora a un giovane soldato appena conosciuto facendolo intrufolare in casa propria mentre la Venere dai capelli rossi, pensando di essere sola ed inosservata, si gode il suo bagno all’alba del mattino. È l’inizio della fine, poiché la donna è acuta, attenta, meschina e malvagia e si accorge di ogni cosa. Sceglie così di irretire il giovane malcapitato il quale, sedotto e plagiato, viene trascinato in un vortice di follia al termine del quale compirà l’omicidio del barone, attuando così la volontà della moglie di sbarazzarsi del subdolo uomo con cui era stata costretta a sposarsi.
Tuttavia, quello che all’autore premeva sottolineare è che non bisogna dimenticarsi che esiste un contrappeso per tutte le azioni. Così l’altera, fredda e statuaria donna manipolatrice si innamora del giovanotto impazzito, che nel frattempo si crede perseguitato, ovunque vada, dallo spettro del barone da lui ucciso per amore. Ella si sente pertanto costretta a proteggerlo nella sua fuga senza fine dai fantasmi del passato, finché i due non troveranno quiete nel freddo abbraccio della morte dopo che il tempo avrà portato via ad entrambi giovinezza e forze.
Se riferito alla contemporaneità, un racconto del genere può sembrare uscito tanto dalla cronaca giornalistica quanto dalla trama di un romanzo; per la seconda metà dell’Ottocento rappresentava sicuramente un contenuto favolistico dal sapore tanto scandaloso quanto, proprio perché tale, attraente e stimolante. L’oscenità è maggiore se si considera che la temperie culturale che partorì una mente capace di una simile novella fu l’integerrima società torinese, forgiata all’insegna del prestigio della monarchia e della compostezza.
Ma ancora più dissacrante fu l’apostasia che Sacchetti compì nei confronti del proprio credo letterario. Se la Scapigliatura voleva infatti imporsi come del tutto nuova, spiazzante e ripulita da una tradizione inveterata e arrugginita, lo scrittore piemontese preserva di essa il gusto per il misterioso, il recondito e le passioni incontrollate ma non può non fare a meno di attingere alla classicità.
Infatti, la trama del romanzo non è affatto inedita ma rappresenta una rivisitazione, seppur sapiente e articolata, di una celebre novella raccontata dallo storiografo greco Erodoto nelle sue Storie datate V secolo a.C. in cui si narrano gli intrighi di potere alla corte del re Candaule, assassinato dal servo Gige, orditi dalla misteriosa e macchinatrice moglie del sovrano della quale non si riporta nemmeno il nome.
Come è dunque possibile che un bohémienne si fondi sulle più arcaiche e consolidate basi della tradizione letteraria occidentale per scrivere un’opera che invece dovrebbe sorgere all’insegna dell’innovazione?
Sarebbe verosimile, nonché evocativo, supporre che questo giovane, attivo pure in politica e dunque quotidianamente in contatto con i fermenti di un’epoca rinnovata e caotica rispetto al passato, abbia voluto imporre la costante attualità di quanto di meglio la tradizione possa offrire. Erodoto ha rappresentato per l’Occidente la pietra miliare della storiografia, senza cui i popoli non risponderebbero alla famosa domanda “da dove veniamo?” E se uomini come lui sono stati ritenuti baluardi irrinunciabili addirittura da chi nutriva un totale rigetto verso il passato, allora si dovrebbe pensare che le corde della sensibilità contemporanea potrebbero essere maggiormente tese sul riferimento a questi illustri antecedenti, al fine di produrre un fertile terreno su cui edificare il nuovo.
Infatti, nel suo romanzo Sacchetti sfrutta in partenza il modello greco ma lo infarcisce di usi, costumi, espressioni e soprattutto passioni specifiche della raffinatezza ottocentesca, interessata all’introspezione e all’interiorità, plasmando un’equilibrata commistione tra antichità e attualità che colma il divario dei secoli trascorsi. Dall’opera di un autore pressoché sconosciuto della tradizione letteraria del Piemonte è quindi estraibile un messaggio etico e culturale dalla portata vasta e dal notevole potenziale applicativo.
Questo articolo ha ricevuto una menzione d’onore alla IX edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura