La curiosità dell’autodidatta e l’organizzazione del pensiero fotografico
Intervista di Nico Ivaldi
Erano quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo e invece arrivò un altro amico armato di macchina fotografica che cambiò loro.
La macchina era una Chinon, una delle tante reflex che cambiarono il modo di concepire la fotografia in quei primi anni Settanta invasi dalla nuova tecnologia nippo-tedesca.
Per il giovane Renzo Carboni, origini sarde, alla ricerca di una forma di affermazione personale in campo artistico, fu una rivelazione.
“Fin dalle elementari, spiega, avevo maturato un forte interesse per le immagini: dipinte, disegni. All’epoca conoscevo le apparecchiature di mio zio che abitava in Normandia, ma le sue erano ancora macchine compatte con obiettivo fisso. Il nostro amico della Chinon pontificava sulla sua nuova reflex, ci spiegava tutto, sicuro delle sue nuove conoscenze. E noi lì a osservarlo, stupiti e scioccati da tanta modernità. Fu quell’episodio a dare il la a tutto il gruppo, non soltanto a me. E anch’io cominciai a fare foto”.
Sarà un caso che Carboni sia nato nel 1954, lo stesso anno in cui il grande fotoreporter ungherese Robert Capa saltava su una mina nell’allora Indocina francese e l’altro grande fotografo, lo svizzero Werner Bischof, rimaneva vittima di un incidente d’auto sulla Cordigliera delle Ande?
“Credo nelle analogie, anche perché io adoro la fotografia di guerra. Certo Capa è stato uno dei miei maestri. In generale sono molto riconoscente ai grandi fotografi del recente passato. Erano grandi autori senza saperlo, li hanno fatti diventare dopo”.
Dopo le prime sperimentazioni, Renzo Carboni – da sempre interessato al tema della Deportazione e autore di apprezzate mostre in Italia e all’estero – comincia a documentarsi e a studiare. Da buon autodidatta aveva capito che “il pensiero fotografico andava organizzato”, e dunque ha cominciato a crearsi una biblioteca di testi di fotografia, di storia e critica, di raccolte di immagini. Oggi quella raccolta è molto ricca, e Carboni continua a cercare e trovare risposte ai suoi perché.
“Sul dilettantismo la penso come Steve Howe, batterista degli Yes, che alla domanda: ma tu sei un dilettante perché non hai fatto scuola di musica!, rispose ‘Sì, non ho mai voluto andare a scuola perché, se lo avessi fatto, avrei suonato come voleva il maestro, dunque senza improvvisare’. E lui è stato un grande improvvisatore. Lo
stesso posso dire di me, imparare a proprie spese ti rende più libero e forse creativo”.
Perché la scelta di lavorare sempre e comunque con il bianconero?
“Il colore l’ho subito scartato per le sue complessità tecniche, oltre al fatto che non ti permette il pieno controllo su tutto il procedimento tecnico. Inoltre non lo “vedevo”, il colore, io vedevo il mondo in bianco e nero. Quando ho visto le immagini di certi grandi fotografi mi sono definitivamente convertito”.
Quando hai cominciato a girare per fotografare i campi di sterminio?
“Nel 1996. Avevo appena acquistato una Panda Dance e con Marisa (Quirico, sua compagna di vita e collaboratrice) dovevamo andare a Monaco di Baviera a trovare degli amici. In quell’occasione ho scattato le prime foto nel campo di Dachau. Da quel momento ogni anno compiamo viaggi nei campi, tra aprile e maggio, da quelli italiani (San Sabba, Fossoli, Bolzano), fino in Germania e in Austria (Buchenwald, Birkenau, Dachau,
Gusen, Hartheim, Mauthausen) e poi in Polonia, dove si trovavano i campi di sterminio: Auschwitz, Sobibor, Treblinka, Belzec. Nei miei scatti c’è il racconto di questo mondo, dei luoghi e della materia”.
Perché la materia?
“È una procedura che ho inaugurato fin da subito. Ho cominciato a fotografare il legno, il ferro, l’erba, molto presenti nei lager, dando una valenza simbolica molto forte alle mie immagini. Anche una foto scattata dal punto di vista del terreno ti permette di dare un maggiore realismo al tuo scatto. Sono convinto che la fotografia possiede una sua logica che all’inizio quando scatti ti sfugge. Ma si rivela dopo, è interna, ti si mostra dopo quando ce l’hai stampata”.
Le immagini di Carboni sui campi sono state esposte in mostre sia in Italia sia all’estero, e hanno sempre ottenuto consensi di pubblico e di critica.
Qual è un campo che ti ha più ispirato, ti ha più coinvolto non soltanto come fotografo ma anche come uomo, quello che in definitiva ti ha fatto più riflettere?
“Sicuramente i campi di sterminio dove non è rimasto più niente, dove i convogli trasportavano la gente che veniva subito gassata e bruciata nei forni. Come Treblinka, dove è rimasto soltanto un enorme memoriale, il monumento ai quattrocentomila ebrei del ghetto di Varsavia uccisi lì. Forse le foto di Treblinka sono quelle che più di altri ti costringono a immaginare, nonostante non sia rimasta che l’impronta dei binari. Quando vado in quei luoghi, vado in apnea. Non esiste più il tempo e neanche lo spazio, c’è solo il tempo fotografico”.
Le tue immagini colpiscono per la tecnica molto particolare, sembra abbiano un respiro quasi cinematografico.
“Vero. Mi ispiro ai classici del cinema espressionismo tedesco e di quello russo degli anni Venti e Trenta, per me sono da sempre una fonte inesauribile di ispirazione”.
So che andate anche nelle scuole per raccontare la Shoah per immagini e parole. Che reazioni hanno gli studenti?
Risponde Marisa Quirico, ex insegnante.
“L’idea era non soltanto quella di proporre una mostra fotografica, ma di coinvolgere le scuole, anche le elementari, su questi argomenti. Con le scuole superiori, soprattutto con l’artistico, abbiamo anche fatto una riflessione sul lavoro fotografico, cosa impossibile con i bambini più piccoli. Nel 2018 lavoreremo a un progetto su Ravensbrück con due istituti torinesi (il Colombatto e il Majorana), con una mostra di foto di Renzo che avranno come didascalia alcuni passi del libro di Lidia Beccaria Rolfi, deportata a Ravensbrück. L’idea è far lavorare i ragazzi sulla lettura del libro e sulle immagini e far loro produrre nuovi materiali (scenografie, piccoli sketch teatrali) che saranno poi esposti”.
Renzo Carboni, tu che ami da sempre stampare le tue foto, hai qualche segreto in camera oscura?
“No, segreti non ce ne sono. Però ho seguito le indicazioni di un grande fotografo, Ansel Adams, il Raffaello della fotografia, secondo me, per eleganza, perizia tecnica, espressività e via discorrendo. Il suo invito era quello di crearsi un proprio sistema di ripresa, di sviluppo e di stampa per poter essere il più possibile onesti, senza guardare a nessuna scuola o senza seguire cattivi consigli. Il suo motto era: Dovete immaginarvela già stampata. Oggi, dopo tanti anni che fotografo e stampo, devo dire che ormai so già il risultato che verrà fuori”.
Secondo te c’è ancora spazio per il bianco e nero in questo mondo di cellulari e foto rapide?
“Il digitale ha ucciso la fantasia, la riflessione. Un tempo, anche per economia, facevi meno foto, ma c’era più tecnica. Oggi mancano gli strumenti per leggere le immagini e soprattutto produrle. Si fotografa senza cultura. Si consuma, si accumula, c’è troppa urgenza”.
Come deve essere un bravo fotografo oggi?
“Credo che ci voglia sempre la curiosità degli autodidatti. Una foto vale mille parole. Sostiene Gianni Berengo Gardin che per fare belle foto bisogna leggere tanto. Ed è così. La lettura è condizione propedeutica alla produzione di immagini. Se tu pensi alle sceneggiature dei film, da lì nascono già le immagini. La camera chiara di Barthes mi ha aperto la strada. A me interessa la complessità di ciò che una foto può rilevare. Ma te la rileva a patto che tu conosca la storia”.
Attualmente quali sono i tuoi ambiti fotografici?
“Mi piace spaziare in molti campi, perché rinchiudersi in uno specifico? La cosa che mi interessa di più in fotografia è la qualità dell’immagine che non sempre corrisponde alla qualità tecnica. Pensa che ho fatto foto con una macchina di plastica pagata un euro al mercato delle pulci di Berlino. Ha un solo tempo, ovviamente, Con quella macchina avevo l’impressione di essere tornato agli albori della fotografia, quando le immagini erano imperfette, non erano dettagliate o ricche di toni. Ho anche fotografato in America Latina, ispirandomi a Sebastiao Salgado. Da un po’ di tempo sto lavorando su muri, immagini strappate, manifesti rotti, sovrapposti, oppure graffiti. È un modo di guardare la realtà urbana che ti circonda” dice Renzo Carboni, mostrandoci le stampe delle sue foto, ognuna delle quali racconta una storia, una tecnica, una suggestione.
Con lo spirito del dilettante ma le capacità del professionista: questo il segreto delle immagini senza tempo di Renzo Carboni, capace come pochi di rappresentare l’orrore della Shoah e di incuriosirci davanti alla semplicità, soltanto presunta, di un bianco e nero.