Teatro in carcere
l’esperienza del “Rodolfo Morandi” di Saluzzo
di Sara Tricarico
“È cominciato tutto così, per caso. Il tempo non passava, mi annoiavo, cercavo qualcosa da fare ed ecco che vedo nella bacheca in sezione la proposta di un corso di teatro. Ho pensato: per continuare a far niente posso iscrivermi a questo laboratorio… sono un po’ timido, un po’ chiuso, questo magari mi servirà a qualcosa… se non altro a distrarmi dalla monotonia quotidiana…”.
A pronunciare queste parole è Ilario, uno dei tanti uomini che, dopo una condanna, è stato obbligato a passare una parte della sua vita in carcere a Saluzzo. Come lui, altre persone relegate a questa condizione, hanno deciso di approfittare della proposta di un corso di teatro.
Il progetto “Teatro in Carcere” nasce infatti nel 2002 nella Casa di Reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo. La richiesta di organizzare questa attività arriva dall’allora direttore del carcere Marta Costantino, che chiese all’associazione “Voci Erranti” di incominciare un percorso teatrale con i detenuti della struttura.
Il progetto, diretto e portato avanti da Grazia Isoardi, ha attratto molti carcerati fin dal primo momento; la maggior parte ammette che inizialmente il laboratorio rappresentava solo una buona opportunità per poter passare qualche ora fuori dalla sezione, tenendo impegnata una parte della giornata.
Il laboratorio nasce seguendo il filone del teatro sociale, definendosi per lo stretto rapporto che si instaura tra il singolo individuo e il gruppo di lavoro in relazione alla vita all’interno dell’istituzione carceraria. Inoltre non assume come finalità principale la realizzazione di un prodotto esteticamente bello, come nel teatro convenzionale; l’obiettivo è invece dare vita a un processo di costruzione e maturazione degli individui coinvolti.
Il teatro sociale che, vede come suo precursore Jacob Levi Moreno, psichiatra statunitense, inizia ad affermarsi in Italia nei primi anni Settanta come una forma d’arte che prevede un lavoro profondo e significativo sui ruoli sociali e psicologici del soggetto, sfruttando le potenzialità terapeutiche del teatro e utilizzandolo come vero e proprio trattamento e cura di persone che vivono una situazione di difficoltà psicologica ed emarginazione sociale.
All’interno del carcere di Saluzzo niente di quello che è portato in scena viene studiato a tavolino, i detenuti portano sul palco solo la verità del loro essere uomini e, affinché questo riesca, è essenziale concentrarsi su un teatro molto fisico, d’impatto, di presenza. Il lavoro si basa sull’ascolto dei detenuti, sui loro desideri, sulle loro paure e l’obiettivo è riuscire a spogliarsi da stereotipi e maschere per entrare in scena puri portando la propria condizione di esseri umani.
“Ci piace affermare che il teatro è un’arte di tutti, che la teatralità appartiene all’essere umano e che la sua pratica non può che aiutarci ad abbattere le tante barriere che ci siamo costruiti nel tempo. Sentiamo il bisogno di relazioni autentiche, di poter esprimere pensieri e sentimenti in libertà, di ascoltare noi stessi e ritrovare aspetti di noi nello sguardo degli altri. Ritornare all’essenza, al piacere del gesto involontario, alla presenza priva di rumori. Il Laboratorio Teatrale è lo spazio dove poter intraprendere questo viaggio della necessità”.
Il teatro in carcere non si impone di creare attori, ma è un teatro che fa riemergere l’uomo nudo e la sua biografia, togliendogli di dosso l’identità coatta che la prigione impone. I detenuti lo descrivono come un lavoro che pulisce, purifica e non fa pensare; come un’occasione per portare in scena alcuni aspetti del male che loro stessi hanno vissuto all’interno delle loro esistenze e della condizione carceraria.
Il progetto di Saluzzo, però, non vuole solo essere uno strumento terapeutico per i detenuti, ma anche un collegamento sociale tra il carcere e il mondo esterno. Nei primi anni, infatti, il laboratorio teatrale iniziava a settembre e proseguiva fino a giugno, concludendosi con uno spettacolo a porte aperte. Una decisione tanto innovativa quanto provocatoria, forse. Per un giorno all’anno il carcere apriva le sue porte per invitare tutta la comunità a presenziare alla messa in scena dello spettacolo. Inizialmente molti sono stati gli scettici; l’occhio dello spettatore può fare molta fatica a guardare l’attore in modo neutro, spogliandolo dell’etichetta, dal momento che è consapevole della sua condizione di non libertà. Ad aumentare i dubbi è stata anche la paura di un contatto così ravvicinato con un mondo che è quotidianamente nascosto e con persone che vivono relegate ad una condizione di espulsione.
In realtà, superate le prime incertezze e diffidenze, gli spettacoli hanno avuto un successo inaspettato, riempiendo gli spazi del carcere di persone interessate a conoscere questa realtà. Spettacoli – come “Amunì” e “Non calpestare i fiori” – sono stati acclamati e ogni data ha fatto il tutto esaurito, tanto da rendere necessario fissare più appuntamenti all’anno. Gli spettacoli sono stati portati fuori delle mura del carcere, dando la possibilità ai detenuti di esibirsi in luoghi diversi dalla prigione. Dal 2004 il gruppo partecipa a rassegne e festival; nel 2006 Rai Tre ha dedicato al progetto una puntata della trasmissione Racconti di vita e la televisione belga KVS nel 2008 ha prodotto un documentario sull’esperienza del gruppo. Nel febbraio 2008 è stato rappresentato lo spettacolo “Lividi” all’interno della stagione di Teatro Sociale del teatro Eliseo a Roma.
È in questo scambio che avviene il contatto fondamentale, obiettivo poi del progetto: la società entra nel carcere ma, allo stesso tempo, il carcere esce e si mischia alla società, pur necessitando una mediazione tra equilibri e disequilibri che emergono in tutta la loro delicatezza.
Le produzioni carcerarie sono ormai una realtà solida, ora anche riconosciuta dal Coordinamento Nazionale del Teatro in carcere oltre ad aver riscosso grande consenso come attività di qualità, d’avanguardia e altamente significativa per la cultura e l’integrazione nel nostro territorio piemontese.
Diverse sono le persone che da anni sostengono e credono nel progetto come realtà formativa e riabilitante per i detenuti e, come occasione di apertura verso la cittadinanza e il territorio. In questa prospettiva il teatro in carcere è cultura che diventa occasione di cambiamento, luogo in cui il detenuto può rivedersi e sperimentare un modo nuovo di relazionarsi, scoprire capacità espressive e rielaborare il proprio vissuto. Perché, come disse un giorno Mario, “se invece che pane e pistole avessi mangiato pane e cose belle, oggi non sarei in galera”.