Andrea Perino ci spiega come solo l’educazione alimentare e la ricerca sulle materie prime potrà rimettere il pane al centro della tavola
Lucilla Cremoni – Michelangelo Carta
Sono circa le sette del mattino quando Andrea Perino arriva in laboratorio, uno snodarsi di ambienti dietro quella che è indubbiamente la più nota panetteria di Torino nonché uno dei punti focali della centralissima Via Cavour. Per un fornaio è tardissimo, ma sono privilegi che il capo può permettersi, mentre il resto della squadra, come si conviene, sta già lavorando da ore (in compenso, il “privilegiato” resta al lavoro fino a sera, mentre i ragazzi staccano nel primo pomeriggio).
Due cose saltano all’occhio. Una è che lì dentro c’è una bella atmosfera, potremmo definirla di operosa serenità: ognuno sa cosa deve fare e lo fa con competenza e precisione, e non mancano i sorrisi e le battute. L’altra è la compresenza di attrezzature all’avanguardia e gesti millenari. Le camere di lievitazione sembrano astronavi, ma sono il naso e le dita di Andrea che decidono quando è ora di passare alla fase successiva; i forni sono avveniristici, ma le movenze dei panettieri sono le stesse immortalate nelle stele egizie.
Ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, che tradizione vuol dire evoluzione, non arroccamento al passato. Eppure a quanto pare sul pane restano particolarmente tenaci certi stereotipi che vorrebbero incompatibili qualità e modernizzazione e rimpiangono i tempi andati di cinquanta o sessant’anni fa, in cui si lavorava nottetempo, con doppia produzione per il sabato, e tutti andavano ogni mattina a comprare il pane fresco. Ha ancora senso, oggi, questa visione?
“Mi spiace dirlo, ma quel mondo – il mondo del bocconcino e della spaccatella – è stato assorbito dalla grande
distribuzione. Dico che bisognerebbe tornare più indietro, a quando il pane era un alimento unico o almeno principale – avere il pane in casa voleva dire che c’era da mangiare. Alla generazione di mezzo invece dico: quei tempi non torneranno più, mettiamocelo bene in testa. Basta, finito, punto. Oggi il lavoro si deve fare sulla ricerca e sulle materie prime. Non dimentichiamo il ruolo che oggi hanno intolleranze, celiachie e problemi alimentari vari, causati anche da una produzione con materie prime di scarsa qualità e dagli additivi. Bisogna tornare a fare un pane che nutra, fatto con materie prime d’eccellenza e che sia sano”.
Ma andiamo per ordine. Come ti nasce la passione? “Dall’obbligo!” ribatte, e ride di gusto. “Hai 19 anni, non hai voglia di studiare, c’è l’azienda di papà e vai sotto a lavorare”.
Evviva la sincerità! “Poi negli anni è subentrata la passione, ma non subito. Si è sviluppata leggendo dei libri su questo lavoro, che ritengo molto bello ma dev’essere – e questo mettetelo a caratteri cubitali – dev’essere calato, oggi, nella maniera più responsabile all’interno di una famiglia”.
Cosa vuol dire?
“Che se non sei abbastanza razionale nelle tue scelte, nei tuoi orari, rischi di passare la vita in laboratorio. Non è un lavoro semplice, devi farlo convivere con una famiglia, dei figli da seguire magari nelle uniche ore in cui potresti dormire.
Ed è anche per questo che dico che bisogna fare un pane buono che possa durare anche una settimana, e perciò non dev’essere necessariamente fatto di notte ma, per dire, può essere sfornato al pomeriggio perché nei giorni successivi è anche più buono. Io ricordo che mio papà alle sette alzava la serranda e avevi il negozio pieno. Oggi le abitudini sono cambiate e l’offerta è molto ampia: si mangia assieme solo la sera e neanche sempre, ci sono gli ipermercati, le catene di fast food, i kebab… Insomma, non c’è più l’esigenza di fare quintali di produzione la notte per essere pronti al mattino, perché non ci siamo più solo noi. Il lavoro è cambiato”.
Tra l’altro quello del pane che dura è un aspetto che ha anche un significato etico non indifferente – pensiamo ad esempio a quante volte ci capita di vedere il pane buttato via, intere pagnotte o sacchetti, uno spreco orribile sotto tutti i punti di vista, incluso quello economico ovviamente.
“Hai toccato un tasto importantissimo. Il fatto è che abbiamo troppa materia prima. Ma quale materia prima? Chi fa colture biologiche o varietà tipiche o antiche ti dirà che ci sono annate migliori o peggiori, ma non si può fare più di una certa quantità, soprattutto se non usi fertilizzanti chimici. Se invece prendi la farina dall’Ucraina o dalla Cina ne avrai sempre, e quanta ne vuoi, e a basso costo. Con quella potrai fare tutto il pane che vuoi e buttare via l’eccedenza. Bisognerebbe tornare indietro, all’ancestralità o quasi, ai contadini che sapendo di poter avere una quantità limitata di grano calibravano la produzione e il consumo in modo da non sprecare nulla”.
Ora però emerge un problema: il prezzo. Come si fa ad equilibrare la ricerca delle materie prime e i costi di produzione con l’esigenza di dare un prodotto che sia economicamente accessibile? Non tutti possono permettersi i prezzi del panificio d’eccellenza…
“Non tutti se lo possono permettere, è vero, e se parliamo delle fasce più indigenti lo capisco. Per le altre però il fatto è che le priorità sono diverse, tipo telefoni, viaggi eccetera, e si fa meno attenzione a quello che si mangia, a cominciare proprio dall’alimento base. Per come sono stato cresciuto io, preferisco rinunciare a qualcosa ma mangiare cibi sani. E sul prezzo del pane ti dico anche: mangiare un dolce industriale è come fumare una sigaretta, sei soddisfatto per un po’ ma dopo mezz’ora hai di nuovo appetito, perché lo zucchero fa questo effetto. Due fette di un pane fatto come dio comanda, magari con un po’ di marmellata o pomodoro, come ci davano a merenda da piccoli, hanno un valore nutrizionale altissimo e saziano, quindi non hai bisogno di comprare e mangiare altri snack o merendine per riempirti lo stomaco”.
Quindi, di fatto, quello che spendi in più per il pane lo recuperi, e anche in salute. Però è indiscutibile che oggi ovunque ti giri c’è un bar, o un fast food, o un takeaway: un vero bombardamento di stimoli che invitano a mangiare e bere di tutto in continuazione, e con porzioni sempre più grandi. Parallelamente, basta andare a far la spesa per vedere quanta ignoranza regni su provenienza, stagionalità, lettura delle etichette eccetera. Allora non sorprende che la gente al supermercato sia attratta dal profumo del pane che esce dai forni piazzati strategicamente e compri quello che è magari un semilavorato proveniente da chissà dove, fatto con farine di ignota qualità, e non importa se al pomeriggio è immangiabile, tanto costa poco e si butta via. Non è che è anche una questione di educazione alimentare?
“Quello che è venuto a mancare negli anni è il rapporto con la terra: se chiedi a un diciottenne cos’è la rucola, magari ti dice che cresce sugli alberi. Bisognerebbe ripartire da una dimensione culturale, dal far capire come e da dove vengono le cose, mostrare ad esempio il percorso a ritroso del panino che viene dalla Romania, vedere cosa spargono sui campi. Quindi un discorso di educazione alimentare, magari con la collaborazione dei coltivatori, non è importante: è basilare. Bisogna tornare alla terra, studiare la possibilità di avviare o riprendere coltivazioni biologiche o biodinamiche, ritrovare il piacere del mangiare cibi di qualità in quantità proporzionate, avviare un cammino consapevole che permetta anche a quelli che adesso stanno diventando i “poveri grassi” che una volta si vedevano solo in America di alimentarsi meglio”.
Ma torniamo al pane. Come vedresti un’evoluzione del mestiere del panettiere?
“Personalmente, se tornassi indietro forse farei solo 5-6 varietà di pane e non tutte quelle che sto facendo adesso, e poche varietà di pizza e dolci, per concentrarmi di più sulla ricerca delle materie prime. Il futuro del panettiere io lo vedo come la possibilità di educare e accompagnare, anche letteralmente, il cliente lungo tutta la filiera, dal molino alla coltivazione del grano”.
Parliamo di mode. Oggi si sente parlare di “integrale” come se questo fosse in assoluto sinonimo di buono e sano, per non parlare di tutte le immagini bucoliche che ci trasmette la pubblicità…
“Certo, ma anche i messaggi apparentemente “sani” possono essere fuorvianti: quando la grande industria sbandiera “farine integrali”, bisognerebbe anche verificare di quali farine integrali sta parlando. La pubblicità mostra laboratori piccoli e antichi, ma la realtà delle grandi industrie alimentari è totalmente diversa, e ha perso ogni legame con l’agricoltura vera. Sarebbe bello se le persone ogni tanto facessero un giro in qualche azienda agricola per vedere cosa vuol dire davvero lavorare la terra”.
Da ormai qualche anno è abbastanza diffusa la panificazione domestica. Questo è in parte una questione di moda, certo, ma ha pure a che vedere col fatto che a volte il fornaio sotto casa non c’è più o il pane che fa non ci soddisfa, e allora si preferisce fare da sé…
“Qui torniamo al discorso fatto all’inizio. Non è che quel panettiere faccia un pane peggiore, è che lo fa come si faceva 50-60 anni fa, senza fare grande caso alla materia prima, e questo è ormai il livello della grande distribuzione. Non sto dicendo che una volta facevano un prodotto che non
era valido, ma lo scopo principale era la quantità, anche se ci sono sempre stati panettieri che lavoravano in un certo modo. Oggi abbiamo la possibilità di lavorare meno di pratica ma più di testa per sviluppare un prodotto di eccellenza, e questo vale per il pane come per la pasticceria: se voglio viziarmi con il panettone, devo pretendere che sia fatto con farine di alta qualità, canditi di vera arancia eccetera. Farsi il pane in casa è in parte una questione di mode e un modo per rilassarsi, ma vuol anche dire riempire la cucina di un valore che è mancato, perché una volta si panificava in casa anche tutti i giorni, soprattutto in campagna quando c’erano le famiglie numerose. E anche a chi fa il pane in casa dico di tornare alla terra: non andare al supermercato, vai a cercarti le farine dal mugnaio, fatti spiegare da che grano provengono e come sono state macinate”.
Il dilettantismo può dare anche ottimi risultati, ma non deve creare illusioni. Certi mestieri non si improvvisano: saper cucinare o fare buone torte non significa essere in grado di gestire un ristorante o una pasticceria. Bisogna avere una preparazione solidissima – tecnica e imprenditoriale – aggiornarsi costantemente ed essere disposti a lavorare duramente tutto il giorno tutti i giorni…
“Sì, e l’improvvisazione – oltre alla mancanza di educazione alimentare, e con la complicità e regia della grande distribuzione – ha abbassato il livello di consapevolezza e percezione del buono, offrendo una marea di prodotti senza sapore o pieni di zuccheri e additivi”.
Un altro feticcio contemporaneo è il lievito madre. Tutti adesso sembrano panificare solo con quello…
“Il lievito madre va curato bene e va fatto in una certa maniera, e se non lo curi si deteriora. Infatti a volte vai al ristorante dove ti portano la carta dei pani “fatti rigorosamente con lievito madre”, e quel pane non è buono. La pasta madre bisogna saperla fare e saperla usare, e usarla tutti i giorni. Il non professionista che usa il lievito madre deve essere in grado di capire se quel prodotto è davvero proponibile. A volte ricevo reazioni scandalizzate se dico che non ho usato esclusivamente lievito madre. Ma il lievito madre non è di per sé garanzia di pane buono. Ci sono dei panettieri che fanno del pane fantastico con la biga”.