Cinque secoli di storia
di Eliseo Manduzio
Chi si trovasse a passeggiare per la centrale Via Roma a Fossano la prima domenica di maggio non potrebbe fare a meno di notare svariati quadri appesi alle facciate dei palazzi porticati. È infatti antica e inconsueta tradizione quella di esporre, in occasione della festa patronale, i ritratti dei benefattori di questa città. Nel numero dei personaggi illustri che si distinsero per donazioni e lasciti in favore di opere assistenziali compaiono esponenti di famiglie ebree vissute a Fossano tra l’800 e il ‘900. Ma non molti sanno che in una traversa di Via Roma, l’attuale Via IV Novembre, un tempo sorgeva invece il ghetto in cui i “perfidi giudei” venivano confinati ed emarginati lontano dal resto della città.
Gli ebrei a Fossano arrivarono nel Cinquecento, quando alcune famiglie giunsero dalla Spagna e dal sud della Francia, espulsi dall’Inquisizione. Pur essendo doppiamente stranieri (per provenienza e a causa della loro fede), generalmente si può affermare che si adattarono abbastanza bene nel contesto sociale fossanese. Prestatori, rigattieri, commercianti, gestori di banchi di pegno, questi per lo più i mestieri della piccola comunità. Tra le circa 150 persone che la componevano, si contano solo un paio di famiglie di banchieri, in disaccordo con lo stereotipo dell’ebreo strozzino e arricchito dall’usura.
Successivamente, in seguito all’emanazione delle Regie Costituzioni, la discriminazione e la diffidenza nei loro confronti, alimentata anche dai pregiudizi fomentati dalla Chiesa, andarono aumentando e culminarono nella costituzione del ghetto nel 1725. Un popolo obbligato sempre a fuggire, a rintanarsi, mal visti e mal sopportati, chiusi in piccoli quartieri, minuscoli rioni, a volte una sola strada, come nel caso di Fossano, munita di cancelli all’entrata in modo da rinchiudervi gli ebrei al tramonto. La ghettizzazione è un esilio di subdola crudeltà in quanto non relega il diverso al di fuori, ma dentro la stessa comunità che lo discrimina; è una piccola deportazione all’interno della medesima città, di breve distanza geografica ma grande distacco mentale e sociale. Come ben si sa, era vietato agli ebrei il possesso di beni immobili e l’accesso all’istruzione pubblica, ma essi si adeguarono a questo restrittivo stile di vita con dignità e determinazione. Sostituirono i datteri e i melograni con le castagne e le mele, fusero la loro atavica lingua con il dialetto locale modellando una sorta di giudeo-piemontese, come avvenne per lo yiddisch degli ebrei tedeschi. A Fossano come a Gerusalemme, gli ebrei sfoggiavano la varietà dei colori del loro vestiario spesso ricavato da scampoli di stoffe cuciti insieme e gli uomini portavano sul capo il tipico mantello bianco e azzurro durante la preghiera. E poi c’era la religione coi suoi riti: i rotoli della Torah e gli oggetti di culto, i candelabri a sette bracci e le candele, tutto veniva fatto in conformità ai precetti della legge nella piccola sinagoga di Fossano che, insieme a quelle di Asti e Moncalvo, officiava il rito di estrazione francese, la cui peculiarità è l’insistenza sul tema dell’amore verso Jahvè. Ci si sposava e si circoncidevano i figli maschi l’ottavo giorno seguendo la legge di Mosè, si seppellivano i defunti nel proprio cimitero, secondo i dettami tradizionali.
Si colloca in questa cornice storica una vicenda i cui margini si confondono con la leggenda e ancora abbastanza vivida nell’immaginario collettivo fossanese: il cosiddetto “miracolo della bomba”. Si narra che nel 1796, durante l’assedio francese, i fossanesi avessero tentato un assalto alla comunità giudaica in quanto favorevole agli invasori napoleonici, visto il loro supporto alla libertà di culto. Gli ebrei avrebbero avuto la peggio se non fosse stato per il provvidenziale scoppio di una bomba francese che disperse gli assalitori.
La presenza degli ebrei a Fossano continuò in condizioni più o meno restrittive fino al 1848, quando ottennero la tanta agognata emancipazione grazie alla promulgazione dello Statuto Albertino che sanciva il riconoscimento dei diritti civili e politici a ebrei e valdesi. È doveroso ricordare che anche i valdesi ebbero a soffrire a Fossano quando, nel 1689, ne morirono circa un migliaio di stenti tra le mura del castello in cui erano imprigionati per la loro fede.
A partire dal 1848 si assiste all’esplosione della cultura ebraica. Bisogna tener presente che nella comunità giudaica l’analfabetismo, allora diffusissimo, era inesistente, perché grande rilievo veniva dato all’istruzione nella sinagoga (che veniva anche chiamata “scuola”). Dalle piccole botteghe gli ebrei giunsero alla pubblica amministrazione e occuparono posti di rilievo nella gestione e nell’insegnamento scolastico e universitario fino alle leggi razziali del 1938. Molte famiglie di ebrei fossanesi vennero distrutte dal nazifascismo: alcuni subirono la deportazione, altri si assimilarono o emigrarono in centri più grandi, primo fra tutti Torino.
Nel 1960 a Fossano si decretò la demolizione della sinagoga per edificare uno stabile di servizi telefonici e oggi a Fossano non c’è più traccia della presenza ebraica, fatta eccezione per il piccolo cimitero composto da neppure quaranta tombe. Qualcuno disse che “ogni paese ha gli ebrei che si merita” e Fossano ne ha meritati di ragguardevoli. Tra questi vale la pena nominare Sansone Valobra, considerato l’inventore italiano dei fiammiferi; Temistocle Jona, raffinato pianista e titolare della cattedra di Chimica all’Università di Pavia per molti anni; Salvatore Sacerdote (discendente dei benefattori citati all’inizio), uomo di cultura, pioniere dell’enigmistica con i suoi logogrifi, collaboratore del “Corriere della Sera”, consigliere provinciale e sindaco di Fossano nel 1918-19.
Ma dai gentili fossanesi non ci furono solamente atteggiamenti antisemiti. Primo Levi scrisse che “l’uomo è bipartito, è un impasto di alito celeste e polvere terrena”, e Fossano può vantare ben quattro cittadini annoverati tra i Giusti tra le Nazioni, onorificenza che Israele conferisce a chi salvò gli ebrei dalla Shoah. Tre di questi, una coppia e una suora, ospitarono e nascosero alcuni ebrei, rischiando la vita. Il quarto, Lorenzo Perrone, contribuì alla salvezza di Primo Levi che lo definì, nel suo capolavoro Se questo è un uomo, un personaggio di un’umanità “pura e incontaminata”. Perrone era un muratore fossanese in trasferta con un gruppo di costruttori ad Auschwitz per l’espansione del campo di sterminio. Qui conobbe e fece amicizia con un prigioniero piemontese come lui, ma ebreo: Primo Levi. Mettendo a repentaglio la propria vita, Perrone lo aiutò materialmente ma soprattutto gli ricordò, “con il suo modo così piano e facile di essere buono”, che “ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro”. Oggi a Fossano, su un viale cittadino, un ceppo ricorda Perrrone.
Questo articolo ha ricevuto una menzione alla quarta edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Cultura e Ambiente