L’impianto di Sangano
di Lucilla Cremoni
Il sole obliquo di una tarda mattinata d’autunno esalta la piacevolezza del paesaggio placidamente ondulato nei dintorni di Sangano, dove andiamo a visitare l’impianto di acqua sorgiva della Smat (Società Metropolitana Acque Torino, nata nel 2001 dalla fusione dell’Azienda Acque Metropolitane di Torino e dell’Azienda Po Sangone). Da qui proviene molta dell’acqua che esce dai nostri rubinetti (eccellente sotto ogni punto di vista, checché ne dicano la pubblicità o le leggende metropolitane).
Entrando nel complesso di Sangano quello che ci sorprende non è tanto l’aspetto vagamente surreale di quei viali d’accesso di ghiaia uniforme e intatta o di quelle aiuole curate con maniacale precisione da mani invisibili (e apparentemente a beneficio di nessuno, perché in quel momento il luogo sembra del tutto deserto). A spiazzarci è vedere la ricerca dell’armonia estetica applicata a un contesto “industriale”. Siamo ormai talmente abituati ad associare l’idea di luogo di produzione di beni e servizi a capannoni ammazza-paesaggio o a palazzoni di vetro e cemento che sembrano farsi vanto della loro triste bruttezza, che facciamo fatica a raccapezzarci delle facciate con rosoni da chiesa romanica delle Ogr di Torino e degli eleganti pilastrini in ghisa che ne scandiscono gli spazi interni, delle linee sinuose della rampa del Lingotto o delle deliziose casette del Villaggio Leumann. Perciò anche queste “case dell’acquedotto”, che hanno l’aspetto di ville signorili e trasformano gli sfiatatoi in leggiadre fontanelle un po’ ci disorientano.
Il ritorno dell’acqua pubblica
L’impianto di Sangano, costruito nel 1860 sopra e attorno alla falda acquifera, è una fra le prime espressioni, in Italia, di una politica dell’acqua pubblica che solo nell’Ottocento era rinata dopo un oblio più che millenario, cominciato con la caduta dell’impero romano.
I Romani, come sappiamo, avevano fatto dell’ingegneria idraulica un’arte (in senso anche letterale, vista la bellezza di quanto resta dei loro acquedotti), ma dopo di loro, il nulla. In Italia, solo la dominazione islamica in Sicilia realizzò una vera rete idrica a scopo irriguo e un acquedotto sotterraneo che raggiungeva Palermo. Poi ci furono opere minori, costruite per rifornire questo o quel monastero o castello, ma venne a mancare del tutto una committenza pubblica per la costruzione di infrastrutture (non solo acquedotti, anche strade e fognature). Del resto, ne erano venute meno le condizioni: i tempi turbolenti e la frammentazione territoriale non incoraggiavano la pianificazione; molte delle cognizioni tecniche e ingegneristiche del mondo antico erano ormai perdute; le terme erano diventate luoghi di prostituzione e malaffare; la cura del corpo e l’igiene personale erano spesso condannate come manifestazioni di vanità e blasfemia.
Perciò, per oltre un millennio si tornò a uno stadio poco più che preistorico. Solo le grandi residenze nobiliari o le fortezze disponevano di cisterne, tutti gli altri attingevano acqua dai pozzi (non molto profondi, perché le tecnologie disponibili non permettevano di scavare o trivellare oltre i 13-15 metri) o direttamente dai corsi d’acqua, con disagi e rischi facilmente immaginabili. Bastava un pozzo contaminato e un intero villaggio poteva ammalarsi; per non parlare di fiumi e torrenti che fungevano da fonte, abbeveratoio, bagno pubblico, lavatoio, cloaca, discarica e sversatoio di liquami di concia o tintoria.
Fu solo a partire dall’Ottocento che si tornò a considerare la gestione pubblica dell’acqua e a progettare una rete in grado di fornire acqua potabile in quantità tali da coprire il fabbisogno di città sempre più popolose, con una presenza crescente di opifici e laboratori, ma pure di quartieri fatiscenti e brulicanti di un’umanità in condizioni igieniche spaventose. Il pericolo principale non era più la peste, praticamente scomparsa alla fine del Seicento, ma le cosiddette epidemie sociali, cioè quelle direttamente collegate alle carenze igienico-sanitare e alla malnutrizione. Dalla fine del Cinquecento il tifo e il vaiolo fecero migliaia di vittime e nei primi decenni del XIX secolo comparve il colera, di cui si verificarono diverse pandemie e che a Torino, fra agosto e dicembre 1835, uccise oltre 2200 persone.
La consapevolezza dei rischi portò all’adozione di una serie di misure di risanamento, come la demolizione dei rioni più degradati e la copertura di canali come la Dora Grossa, vere fogne a cielo aperto. Parallelamente si analizzò l’acqua dei pozzi e i risultati furono allarmanti. Già nel 1832 Maria Cristina di Borbone, vedova di Carlo Felice, aveva commissionato all’ingegnere Ignazio Michela uno studio su come portare a Torino “acqua potabile di sorgente, sempre fresca, sempre pura, sempre abbondante, derivandola direttamente dalle Alpi o da luoghi elevati che poco distassero dalle medesime. L’acqua… doveva arrivare… a tutte le case… ed a tutti i piani delle medesime, liberando così gli abitanti dell’incomodo e della spesa di dover attingere l’acqua da bere da pozzi quasi sempre inquinati…”
La sovrana decise di donare il progetto di Michela, assieme a un significativo finanziamento, alla società (che si sarebbe costituita nel 1847) per la fornitura di acqua potabile alla città ponendo come condizione che l’acqua fosse fornita “gratuitamente e a perpetuità” agli istituti caritatevoli. I 53 soci fondatori (fra i quali l’onnipresente Cavour) crearono una commissione per esaminare i sei progetti che erano stati presentati e scelsero quello che prevedeva l’uso delle risorse idriche della Val Sangone. L’inaugurazione ufficiale del primo acquedotto piemontese ebbe luogo il 6 aprile 1859 alla presenza del ministro dei Lavori Pubblici in sostituzione di Cavour, occupato in ben altre faccende visto che una ventina di giorni dopo sarebbe scoppiata la seconda guerra d’indipendenza. La cerimonia si tenne in piazza Carlo Felice, dove un altissimo getto d’acqua segnava il punto di arrivo di quella prima conduttura che dalle gallerie di Sangano si sviluppava in rami principali e diramazioni fino al centro di Torino. Il resto, come si dice in questi casi, è storia. Nel tempo furono costruiti nuovi impianti: di potabilizzazione, come quello di corso Unità d’Italia, che attinge acqua dal Po e può portare fino a 2500 litri al secondo; di depurazione e trattamento chimico e biologico, come quello di Castiglione Torinese, il più grande e tecnologicamente avanzato del suo genere in Italia; di depurazione e riuso, come quello di Collegno, che recupera le acque reflue depurate e le ridistribuisce per uso industriale.
La cattedrale dell’acqua
L’impianto di Sangano, di acqua sorgiva, si estende nel sottosuolo a una profondità di oltre dieci metri. Si trova sulla sponda sinistra del Sangone ma non prende l’acqua dal torrente, bensì direttamente dalla falda acquifera tramite gallerie di attingimento. Vi si accede con ripide scalette di pietra che danno su una specie di terrazza dalla quale si dipartono i camminamenti, passaggi e corridoi che circondano il serbatoio. Lì sotto c’è una temperatura costante sui 15°, i muri sono possenti e levigati dal tempo, i soffitti bassi; in due o tre punti delle piccole formazioni calcaree hanno creato forme bizzarre e minuscole stalattiti, bianchissime. Massicci valvoloni di regolazione troneggiano qua e là, anditi sinuosi collegano larghi passaggi e camminamenti stretti stretti che, per effetto della luce fioca delle lampade, sembrano infiniti. Il silenzio assoluto è rotto a tratti da un chioccolio o uno scroscio, e per suggestione viene naturale parlare sottovoce. Dai parapetti si vede o si intuisce l’acqua, limpidissima, solo apparentemente ferma, sulla cui superficie si specchiano e raddoppiano archi, ombre, luci, riflessi. I paragoni si sprecano: le segrete di una fortezza, una catacomba, un tempio sotterraneo; la definizione più diffusa, e forse la più azzeccata è “cattedrale dell’acqua”, per via di quelle navate formate dalle fughe di archi e terminanti, dopo il lungo tratto oscuro dello specchio d’acqua, in porzioni di corridoio che, incorniciate da archi e illuminate, ricordano cappelle e altari.
Ma non facciamoci incantare da queste atmosfere sospese. Qui dentro non c’è nulla di casuale: il contenitore è antico e suggestivo, ma tutto è controllato con strumentazioni all’avanguardia, ogni parametro chimico, fisico, biologico è monitorato con la massima precisione.
Non a caso quest’acqua è stata scelta per dissetare gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale.
Ma questa è un’altra storia.
Foto di Lucilla Cremoni
Si ringraziano Giorgio Morello e la Smat per la preziosa collaborazion