Valledora, o la distruzione di un territorio
di Floriana Rullo
Quando Gabriella ha comprato la sua cascina ad Alice Castello, nel pieno della pianura vercellese, non si aspettava di trovarsi un giorno a vivere in mezzo alle discariche. Né tanto meno di dover convivere ventiquattr’ore su ventiquattro con topi e mosche. Non immaginava neppure che la sua vita si sarebbe trasformata in un inferno a causa di quei piccoli rilevatori di colore rosso montati nella sua cantina e pronti a dare l’allarme in caso di esplosione dei biogas emessi dal terreno.
Già, perché quando più di vent’anni fa sono iniziati gli scavi per la prima cava in Valledora, striscia di terra tra il lago di Viverone e la campagna di Tronzano Vercellese, tra le province di Vercelli e Biella, Gabriella non pensava sarebbe andata a finire così. Sapeva che la zona in cui era cresciuta e aveva scelto di vivere era ricca d’acqua e di ghiaia, ma non avrebbe mai immaginato che le pietre estratte da quel terreno, da sempre votato all’agricoltura, sarebbero diventate un vero e proprio business. O perlomeno non così tanto da far diventare la zona un “Klondike della Bassa” capace di scatenare una vera e propria corsa all’”oro” da parte di imprenditori provenienti da tutta la penisola. Proprio lì, dove c’erano solo lunghe distese di campi da coltivare, in un’area incastrata tra il deposito di scorie nucleari di Saluggia, le due centrali termoelettriche di Livorno Ferraris e l’inceneritore di Vercelli. Un luogo soffocato dal cemento dei ponti e dei piloni dell’alta velocità, martoriato da cave e discariche, dove l’agricoltura e l’artigianato sono stati lasciati morire di proposito, con l’assenso di amministrazioni locali di corte vedute.
Invece, col passare degli anni, le cave si sono moltiplicate. Una, poi due, tre. E poi, una per una, quelle stesse cave sono state trasformate in discariche. Da quella di rifiuti speciali di Cavaglià a quella con spazzatura urbana e assimilabile di Alice Castello. Per non parlare di amianto, rifiuti speciali e scarti chimici. Per un totale di quasi quattro milioni di metri cubi di spazzatura. “Negli anni ‘90 hanno iniziato a scavare, scavare, scavare”racconta Gabriella contemplando il suo territorio devastato. “Poi mi hanno detto che forse avrebbero fatto una discarica. E ora siamo circondati dai rifiuti”. Il motivo della scelta è semplice: i buchi delle cave c’erano già, erano solo da usare. “Ogni volta scattava un’emergenza e la destinazione delle cave in disuso era scontata. Ogni buco veniva riempito da rifiuti”.
Così, in poco tempo, Gabriella ha visto cambiare la terra che la circondava. Un incubo a pochi metri da quella casa costruita con fatica e sacrifici. In pochi anni ha visto trasformare i terreni che la attorniavano in una fabbrica del rifiuto a cielo aperto. E la Valledora è diventata in un batter d’occhio uno dei territori più violati d’Italia.
Ma, mentre tutti i suoi vicini di casa, stanchi di subire quelle torture e in cerca di scampo dai veleni che hanno colpito terra, aria e acqua, sono fuggiti, Gabriella e la sua famiglia hanno deciso di restare e lottare con tutte le forze contro quella vita d’inferno.
In realtà a dar fastidio non è solo l’odore acre che notte e giorno viene sprigionato dalle montagne di spazzatura: quello è solo uno dei problemi, il meno importante forse, e con cui si impara, in ogni caso, a convivere. Il vero inferno delle terre vercellesi è il percolato che s’infiltra nel terreno e finisce per inquinare la falda acquifera che passa proprio lì, a 30 metri di profondità. Proprio l’acqua che arriva ai rubinetti delle scuole e delle case di mezzo Piemonte. “Già, perché il terreno è composto da un acquifero indifferenziato. Non c’è alcuna distinzione tra l’acqua superficiale e quella profonda” spiega Mario Ferragatta, esponente dell’associazione ambientalista Valledora. “Il rischio è che il percolato arrivi in profondità, dove pescano gli acquedotti comunali. Eppure i privati sono riusciti a dimostrare che esiste una divisione tra le due falde, cosa non vera. Poi basta un buco e un’emergenza rifiuti per trasformare le cave in siti di stoccaggio”. Un bel problema, visto che in molti hanno detto che quegli scavi non andavano fatti. “Gli studi per gli imprenditori sono stati fatti da privati: si è detto loro ciò che volevano sentirsi dire. Ma il terreno è vulnerabile e il setto separatore tra gli acquiferi superficiali dove si scava non è continuo. E così si rischia di arrivare alla falda, come già successo”.
Ma come hanno fatto i cavatori ad ottenere da Provincia e Comuni i permessi per lavorare in terreni così vulnerabili? La spiegazione è semplice. Nella provincia di Vercelli e Biella manca completamente un piano sostenibile per l’escavazione. Basta considerare che la regolamentazione attuale si rifà al Decreto Regio del 1927 e che in teoria sono le Regioni a dover regolamentare il settore, anche se solo alcune lo fanno. “Perché è vero che ogni singolo impianto, ogni singola cava ha l’autorizzazione per esistere, ma manca l’attuazione di un piano territoriale che tenga conto di una situazione unica. Qui, per esempio, si chiede solo che le cave vengano poi ripristinate come previsto all’atto dell’autorizzazione del progetto. Non importa in che modo poi questo venga fatto” spiega Anna Andorno, portavoce del movimento Valledora. “Per esempio in quelle già esistenti ci hanno promesso di creare zona turistica: dal bosco a 25 metri di profondità, quasi dantesco, alla cava in falda su cui si potrà fare sci nautico. Ma di recuperi ambientali non ne abbiamo ancora visti. Per ora abbiamo solo avuto un parco divertimenti del rifiuto”.
Gabriella non è la sola a lottare contro il muro dell’indifferenza e del silenzio che affligge la zona. Quando il problema Valledora nacque, alla fine degli anni Ottanta, ci furono processi, arresti e indagati. Allora scesero in piazza migliaia di persone. Oggi invece a cercar di far emergere il problema c’è solo l’associazione ambientalista “Movimento Valledora”. Ricorsi al Tar, raccolta di firme, pellegrinaggi negli uffici di assessori e sindaci, alla ricerca di risposte e responsabilità per il disastro ambientale che la zona ha subito. Non solo. Il gruppo si è anche inventato uno “Spazza tour”, un viaggio tra l’immondizia che mostra a grandi e piccini la più grande violazione del territorio che il Vercellese deve sopportare. Per chi l’attraversa in macchina lo spettacolo è disarmante. Cattedrali di rifiuti e cumuli di cosiddette ecoballe da cui si disperdono contenuti che potrebbero essere pericolosi e inquinanti. Ettari di terra ricoperti da teli neri e copertoni che nascondo ogni sorta di scarto. Dall’organico alla plastica. Tutte raccolte in quella che ormai si definisce come terra del rifiuto.
Ma adesso la situazione sembra cambiare, forse dopo tante battaglie si apre uno spiraglio di luce. “Noi siamo come Don Chisciotte e stiamo lottando contro un nemico apparentemente invisibile, che arriva da ogni parte”, prosegue Anna Andorno. “Ora, dopo anni, qualcosa sembra muoversi. Per la prima volta due comuni, Tronzano e Santhià, coraggiosamente, hanno votano delibere che negano nuovi ampliamenti delle cave. Forse ci sarà una nuova storia per la nostra terra”. Insomma il luna park degli scavi e dei rifiuti piemontesi e lombardi, almeno per ora, sembra non aumenterà il numero delle sue ripugnanti attrazioni. E i cittadini sentitamente ringraziano, anche se non abbassano la guardia.
Questo articolo ha ricevuto una menzione speciale alla V edizione del Premio Piemonte Mese, sezione Cultura e Ambiente
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