Un viaggio di addio ai binari soppressi del Piemonte
di Simone Schiavi
L’idea è una di quelle un po’ folli: andare a vedere per un’ultima volta le linee ferroviarie del cuore del Piemonte, quelle che potrebbero non tornare più. Dal 17 giugno 2012, infatti, dodici linee ferroviarie regionali hanno aperto, forse per sempre, i loro passaggi a livello. Non è soltanto un viaggio sentimentale, ma anche un modo per incontrare i pendolari di provincia, lontani dalle esistenze delle grandi città; persone che avranno un motivo in più per ripensare, almeno in parte, la loro esistenza quotidiana.
Abbiamo studiato fino alle due di notte un percorso che ci consenta di vedere più linee possibili in un solo giorno: è il 15 giugno, l’ultimo giorno di orario scolastico completo.
Partendo da Torino, la sveglia suona presto: poco dopo le 8, insieme al nostro fido cineoperatore, siamo già a Castagnole Lanze, nell’Astigiano più profondo. La stazione era di quelle importanti, quasi una piccola Bologna: fin dal 1855, da qui si andava ad Alba in una direzione, o verso Asti e Alessandria/Mortara nell’altra. Da un anno, Alba è già un ricordo: una galleria è stata chiusa perché andrebbe risanata, e nel frattempo è stata bloccata l’intera tratta; restano solo erbacce e ricordi. Ma i pendolari sono battaglieri e serpeggia il malcontento: si organizzano raccolte di firme, anche nel bar Centrale, dove il titolare scuote la testa. L’autobus sostitutivo da Alba si infila con fatica nel piazzale della stazione e l’operazione pare lunga e complessa. Scarica, tra gli altri, una dozzina di ragazze biondissime e sperse, che parlano inglese: ci chiediamo dove mai si dirigano, trovandosi lì e a quell’ora, mentre loro si domanderanno la bizzarra motivazione per questa staffetta autobus/treno in mezzo al nulla. Salgono sulla Aln 663 a gasolio, di fronte all’ex magazzino merci che sembra bombardato ma si è solo accartocciato su se stesso; intanto, un gatto attraversa i binari lontano dal passaggio consentito, forse sapendo che dall’indomani non ci sarà più nessuno a multarlo.
Salutate per sempre le ferrovie per Asti e Alessandria/Mortara, andiamo a vedere la situazione a Mondovì, ma il caos delle strade fa la prima vittima: uno degli innumerevoli camion da cantiere va ai quaranta all’ora; non è sorpassabile, rallenta il traffico e fa pensare che rallenterà anche i bus dei pendolari.
Arriviamo quando il treno Saluzzo-Cuneo si è allontanato da cinque secondi. “Partito!”, mi dice un immigrato dell’Est. Usa i suoi pochi denti per sorridermi, ma la sua non è irrisione; piuttosto, è quella malinconia tutta balcanica per le cose della vita che prendono il loro binario, ben diverso da quello che vorremmo. Una foto di sfuggita in lontananza, un’altra linea che se ne va. Resta soltanto un’amara considerazione sull’affidabilità del traffico lungo le strade extraurbane.
Ma non c’è tempo per la filosofia: basta voltarsi verso sinistra per notare che da Mondovì partiva anche la breve linea per Bastia, uno dei primi “rami secchi” tagliati con la sfrondata del 1986 (molto delicata rispetto alle potature di oggi).
La stazione di Bastia è un monumento alla grandezza che fu, una metafora lunga sessanta metri; di qui passava anche l’antica Bra-Ceva, totalmente ricostruita poco prima che l’alluvione del 1994 se la mangiasse. Oggi restano un edificio di un rosso abbacinante ma sbiadito, infinite sterpaglie, lucertole e un’ambientazione da thriller nostrano. Il paese è distante, dall’altra parte del Tanaro, e pare aver scordato la sua stazione. Ripartiamo così verso Dronero, dove troviamo una sorpresa insperata: la stazione della breve linea per Busca, fortissimamente voluta da Giolitti, è chiusa da trent’anni ma pare che l’ultimo treno sia partito da un’ora. Il merito va ad un gruppo di appassionati che la cura come il giardino di casa propria, vanta un gruppo Facebook con parecchi sostenitori, ha restaurato un piccolo carro merci e crede nei sogni realizzabili: se non il ritorno di un treno, almeno un “trabattello” per muoversi avanti e indietro, lungo i binari (che ci sono ancora).
Seguendo la linea, si arriva per l’appunto a Busca. Qui la linea da salutare è la Saluzzo-Cuneo, che resterà attiva per trasportare merci, soprattutto granaglie per un mulino e tronchi che a Verzuolo diventeranno carta. Ci si presenta la scena più antica del mondo: un bimbo di tre anni che, con la nonna, aspetta il treno. “Vuol venire tutti i giorni”, racconta la signora, con tenera rassegnazione. Io e lei sappiamo che quello è, in assoluto, l’ultimo treno passeggeri del pomeriggio; soltanto il bimbo ignora che dovrà cambiare passatempo, e forse non sognerà più di fare il macchinista. Proprio come lo sognava il nostro cineoperatore, che scruta pensoso quel paesaggio da frontiera del vecchio West, senza niente da filmare. Infatti il treno ritarda: pensando ad una soppressione anticipata (niente da stupirsi), la signora col passeggino se ne va. Il bimbo mostra tutta la sua delusione, ma la nonna capisce che non è soltanto una questione ferroviaria: è anche una dichiarazione non scritta di declino incombente. Difficile da accettare, per una terra che sconfisse la fame solo due generazioni fa (leggere Nuto Revelli per credere) e oggi vede un mondo che rotola all’indietro.
Stiamo ripartendo per la destinazione successiva con le pive nel sacco, quando suona l’inconfondibile campanella sotto il cartellino “per Cuneo”: il treno sta arrivando, non è soppresso. In lontananza pare un fantasma; il macchinista ci vede fotografare, ci chiama e già pensiamo che protesti per la privacy violata. Non è così. Chiede una foto ricordo: gli resterà come unica memoria della linea. L’automotrice è sempre una Aln663 diesel, costruita a Savigliano nel 1985 e ormai prepensionata (o piuttosto “esodata”, come usa oggi). Se ne va, ma non c’è tempo per star fermi.
I ritmi sono veloci, e ripartiamo per l’ultima destinazione della giornata, la Pinerolo-Torre Pellice. Vorremmo arrivare alla stazione intermedia di Bricherasio, dove si dipartiva la linea per Barge (soppressa nel 1966). Tuttavia, il ritardo del treno ci ha fatto perdere la coincidenza e tocca andare fino a Pinerolo. Stessa musica, scenario diverso: chi riesce a trovare il misterioso binario 5, vede finalmente un treno nuovo. È un “Minuetto” elettrico, pure lui made in Savigliano, elegante, comodo e silenzioso, ma pur sempre al penultimo giorno di servizio su quella linea. Riparte mestamente verso le valli valdesi, con un’accelerata rabbiosa di commiato; il nostro cineoperatore è abbarbicato su una cancellata, con sprezzo del pericolo: professionalmente, sa che una ripresa di qualità val bene qualche rischio.
Torniamo alla base dopo undici ore e quasi 350 chilometri percorsi. Nel nostro itinerario, pure incompleto, abbiamo riletto tutta la storia del Piemonte, una regione che rivaleggiava per densità ferroviaria con l’Inghilterra – detto per inciso, una nazione in cui le privatizzazioni hanno decimato la rete e causato una precipitosa, anche se parziale, marcia indietro.
Abbiamo pensato ai pendolari, ma anche ad un servizio di treni storici che aiuterebbe paesi un po’ fuori mano a farsi conoscere, fuori dai soliti seppur meravigliosi posti. Nella testa, forse ottenebrata dal caldo africano di questo giugno 2012 ormai distante, resta un’immagine ben chiara: Cavour, Giolitti e tanti altri che investivano somme folli, all’epoca, per dare un futuro al Piemonte. Quelle ferrovie erano, o sono, un organismo vivo. Sono le viscere del Piemonte; e come avviene per ogni essere vivente, basta lasciarle in balia di se stesse per un solo anno, per vederle morire. La Regione, che ha oggettivamente un compito ingrato, li definisce “sprechi pazzeschi”. Negli occhi di chi prende il treno, di chi lo manovra e anche di chi lo aspetta per fargli ciao con la manina, il pensiero non sembrava esattamente quello.
Foto di Simone Schiavi