Il Museo dei Lavandai a Bertolla
di Emanuele Franzoso
“Chi ha ideato la lavatrice non ha inventato proprio niente”. Parola di Tino Prina e di sua moglie Teresa. Loro sono l’anima del Museo dei lavandai di Torino. Una vera e propria wunderkammer – una stanza delle meraviglie – che con cura e amore, i coniugi torinesi appartenenti a famiglie di lavandé doc e quindi memoria storica della categoria tengono aperta a disposizione di appassionati, studenti, ricercatori e curiosi.
Si trova alle porte della città, nel quartiere Bertolla, all’interno del cortile di un oratorio parrocchiale nella chiesa di San Grato. “Tutto è nato qui e qui deve restare”, affermano perentoriamente i curatori dell’esposizione, inaugurata nell’ottobre del 2002, e che quattro anni più tardi hanno scritto un volume proprio su Bertolla. Basta guardarsi intorno per capire che un patrimonio come quello conservato nelle tre stanze che compongono l’esposizione è limitato e merita una collocazione più spaziosa.
L’importanza di tramandare la conoscenza di un mestiere antico come quello del lavandaio, attività praticata raramente ancora da qualcuno ma ormai solo in forma privata, non si discute: le pareti del museo parlano da sole, trasudano storie. “Ci è capitato di dover rinunciare a qualche oggetto storico frutto di donazione ma troppo ingombrante per poter essere messo all’interno della mostra”, rivela Teresa Prina con un po’ di amarezza,“Ci è stato promesso più volte un ampliamento dei locali, negli anni, ma ad oggi non si è ancora verificato. Comunque noi non ci scoraggiamo”.
In questi dieci anni infatti nessuno è rimasto ad aspettare e le attività sono proseguite una dopo l’altra. La ricca esposizione del Museo dei Lavandai, che dal 2004 fa parte dei percorsi dell’ecomuseo urbano della Circoscrizione VI, è una delle numerose testimonianze di un mestiere scomparso, ma le occasioni non mancano nemmeno fuori Torino. “Andiamo in giro per fiere, manifestazioni e feste di paese circa cento giorni all’anno con il gruppo storico” rivela Tino, riferendosi ai personaggi del gruppo de La Lavandera e ij Lavandé ‘d Bertula,costituitosi in associazione il 29 agosto 1997, mentre illustra alcuni oggetti e abiti di un tempo.
Il gruppo di personaggi storici, ai quali si sono aggiunte anche altre figure come i Teracin, che raccoglievano la sabbia per i cantieri lungo i fiumi, gira instancabilmente di città in città portando colore, storia e cultura di un secolo passato. Ad esempio, in occasione dell’apertura dei festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, iLavandè erano in prima fila. La festa di quartiere ricorre ogni anno la seconda domenica di settembre con la sfilata per le vie del rione tra le quali spicca una via che nel 2005 è stata intitolata proprio ai Lavandai; anche in quell’occasione i veri protagonisti sono loro, nati sulla sponda sinistra del Po, insieme ai barcaioli del vicino rione Barca, alla confluenza del torrente Stura e della Dora Riparia con il fiume Po. La mostra fotografica ufficiale si tiene invece ogni secondo finesettimana di giugno.
Comprendere i cambiamenti nelle abitudini e nei costumi quotidiani avvenuti in meno di cento anni appare più semplice ascoltando i racconti di Tino e Teresa, che descrivono con pazienza e senza retorica ogni immagine, oggetto o cimelio della loro mostra. Il lunedì si andava “a rendere”: il primo giorno della settimana, cioè, si consegnava il bucato pulito e si ritirava quello da lavare, che veniva poi steso al sole alle porte della città. Anche i bambini, nel periodo di vacanza da scuola, erano coinvolti e spesso venivano chiamati a dare una mano.
La lavatrice è un’invenzione recente e riunisce funzioni che un tempo, semplicemente, venivano svolte in maniera separata e con fasi di lavorazione manuali: nella caldaia bolliva l’acqua, la macchina per lavare i panni girava esattamente come avviene oggi per l’elettrodomestico (cinque volte in un senso, cinque nell’altro), quindi c’era la centrifuga. Tutto aveva un nome corrispondente nel dialetto piemontese. Il botal, ad esempio, era un bidone in cui veniva acceso un combustibile – il carbone costava troppo, più frequentemente andava a legna – nei cortili. “Quando non fuoriusciva più fumo,raccontano le guide del museo, era compito dei bambini trasportare il botal, dotato di ruote, dentro casa e farlo girare sotto i vestiti stesi, appesi al soffitto, facendoli asciugare: quest’usanza, che per i più piccolo era una sorta di gioco, durò fino agli anni Trenta, poi è arrivata la corrente elettrica, i bruciatori a nafta, le caldaie con i trucioli. Fino alla lavatrice, negli anni Sessanta, che non è altro che la risposta meccanica ad un lavoro manuale e tradizionale”. A mantenere intatta l’atmosfera di un secolo che appare lontano ma ancora ben vivo nei ricordi di molte persone che hanno vissuto o che semplicemente ne hanno conservato i racconti e i ricordi, ci aiutano anche le poesie e le filastrocche. Molte sono quelle incorniciate e appese alle pareti delle sale allestite nell’oratorio di San Grato, una s’intitola “L’elisir dei Bertouleis” e racchiude il segreto del vero abitante del rione torinese. Comincia così:
Vist che ‘n cheui noi sima en vena / d’travajé mach per la gloria, / un ricord ch’a val la pena, / vi lasuma per memoria. / Un ricord che per comprelo / basto nen tanti milion / mentre nui per refalelo / ciamuma mach ‘n po’ d’attension. / S’trata dunque dla ricèta / d’l’Elisir di lunga vita, / da na man pitòst suspeta / s’un toch carta lassà scrita. / La riceta l’uma trovala / tanti e tanti anni fa / ben stermà ‘nt’un soutscala / ‘n mesi i giari e le ragnà. / Dunque pijé un bel mass d’urtie, / trenta chilo d’ ravanin / ‘n etto d’ malva, quatr cuchie, / ‘n miria d’ pelver, un sciutin: / buté tut ant’ un fujot / d’tera neuva, un po’ scrusià, / fasand feu fin ch ‘l decot / a diventa na putìa. / E dop lon, con ‘n po’ destrëssa / ciapè su coul bel pastiss / e con gran delicatëssa / campè tut drinta l’amnis!
(Visto che oggi siamo in vena / di lavorare solo per la gloria / un ricordo che vale la pena / vi lasciamo per la memoria / Un ricordo che per comprarlo / non bastano tanti milioni / mentre noi per raccontarlo / chiediamo solo un po’ di attenzione. / Si tratta dunque della ricetta / dell’Elisir di lunga vita / da una mano piuttpstp sospetta / su un foglietto lasciata scritta. / La ricetta l’abbiamo trovata / tanti e tanti anni fa / ben nascosta in un sottoscala / in mezzo ai topi e alle ragnatele. / Dunque prendete un bel mazzo di ortiche / trenta chili di ravanelli / un etto di malva, quattro conchiglie / un miria di pepe, uno sciutin: / mettere tutto in una terrina nuova, un po’ scrostata / e cuocere fino a quando il tutto / diventa una poltiglia. / E poi, con un po’ di destrezza / prender su quel bel pasticcio / e con gran delicatezza / buttare tutto nella mondezza…)
Il resto potrete leggerlo direttamente al Museo, che si trova in Via Bertolla 113 ed è visitabile su prenotazione telefonando ai numeri 011 2731880, 349 8722649 oppure scrivendo una mail all’indirizzo: tere.tino@virgilio.it.