L’agricoltura sociale secondo Coldiretti
di Lucilla Cremoni
A marzo di quest’anno Coldiretti Torino ha organizzato alcuni world café per parlare di agricoltura sociale. Cosa sia il world café, in questo mondo così social lo sanno tutti: una riunione informale con spuntino (nello specifico, una bella merenda sinoira), evoluzione delle vecchie chiacchiere attorno alla macchinetta del caffè, un momento in cui si parla di argomenti definiti ma in modo libero e rilassato.
A parlare di agricoltura sociale invece si rischia, anzi si è quasi certi, di ottenere solo uno sguardo interrogativo oppure, se l’interlocutore vuole darsi un contegno e non fare la figura dell’ignorante, una domanda del tipo “ma tu cosa intendi per agricoltura sociale?”. E quando gli spieghi che si tratta dell’uso delle attività agricole per la fornitura di servizi, la riabilitazione o (ri)socializzazione di persone con difficoltà, allora l’espressione assumerà la compassionevole gravità che si riserva ai casi umani più toccanti.
Dalla trappola del pietismo ancora non si sfugge, purtroppo: nessuna remora a spiattellare dettagli che dovrebbero restare oltre la porta (chiusa) del bagno, ma eufemismi, imbarazzi e retorica melensa appena si tocca il tema della disabilità. “Invece lo scopo dell’agricoltura sociale è esattamente l’opposto: è creare vera integrazione e ridurre lo stigma, senza giocare sui pietismi”, spiega Stefania Fumagalli, che è da anni referente
del progetto Agricoltura Sociale di Coldiretti Torino. “Quello che abbiamo mangiato durante i world café era cucinato coi prodotti dell’agricoltura sociale. Il senso era far capire che quelli sono prodotti in linea con tutti i criteri di territorialità, stagionalità e “pulizia”, cioè utilizzo limitato o nullo di prodotti chimici, e che ci si deve avvicinare a questi prodotti non perché “fatti dai poverini che vanno aiutati” ma perché sono buoni. E hanno un pezzo in più, che è un pezzo sociale, di ricostruzione di welfare di comunità, ancor più importante in questi tempi in cui non ci sono più risorse”.
Le aziende che praticano agricoltura sociale continuano a coltivare e ad allevare, ma anziché concentrarsi esclusivamente sulle produzioni si mettono in rete con cooperative, assistenti sociali, psicoterapeuti, eccetera e, nel pieno rispetto dei rispettivi ruoli, riescono a dare “un pezzo in più”, operando su tre aree principali: inclusione sociale e lavorativa, cura e riabilitazione, miglioramento della qualità della vita attraverso la fornitura di servizi.
Parlando della prima area, quella dell’inclusione sociale e lavorativa, il presidente di Coldiretti Piemonte Roberto Moncalvo ci tiene a sottolineare “il fatto che aziende come quelle agricole, che in genere hanno meno di 15 dipendenti e non sono tenute per legge ad assumere persone disabili o con difficoltà, facciano autonomamente, per responsabilità sociale, la scelta di accogliere soggetti vulnerabili”. Ad esempio le donne vittime di tratta: finora i casi sono stati quattro, un numero solo in apparenza basso, perché inserire e mantenere al lavoro persone con questo genere di vissuto non è semplice, tanto che l’esperienza (tuttora in corso, e tre delle quattro donne continuano a lavorare in azienda) è diventata un caso da manuale citato in convegni internazionali come esempio di buona pratica. Oppure il lavoro coi rifugiati politici.
E poi c’è l’ambito della disabilità, fisica o psichica/intellettiva. Nel primo caso le contingenze possono generare soluzioni creative: un’esperienza particolarmente interessante riguarda proprio il presidente Moncalvo, che ha accolto nella sua azienda un ragazzo su sedia a rotelle e per consentirgli di lavorare ha piantato le fragole fuori suolo, su pianali rialzati (incidentalmente il ragazzo, rimasto in fattoria un anno e mezzo, aveva deciso di cambiare lavoro ma dopo un anno ha chiesto di essere riassunto).
Nel caso di persone con disabilità intellettiva o psichica gli inserimenti, sempre seguiti da personale specializzato, non sono affatto riducibili alla dimensione dell’assistenza, perché i problemi possono rivelarsi risorse: ha fatto letteratura il caso di un’azienda pisana che ha accolto un ragazzo con disturbo ossessivo-compulsivo e ne ha fatto un selezionatore di frutta e verdura senza rivali. Quindi, ribadisce Moncalvo, “non si tratta di fare un favore ai cosiddetti “diversamente abili”, ma se mai di scoprire abilità diverse, che possono rivelarsi preziose nel processo produttivo”. In effetti si tratta di una retro-innovazione: già all’inizio del ‘900 molti internati del manicomio di Volterra furono inseriti nelle fattorie dei dintorni, e con ottimi risultati. In pratica, si stanno ripercorrendo strade già tracciate, ma lo si sta facendo con nuovi strumenti e diverse consapevolezze.
La seconda area di intervento è quella della cura e riabilitazione, ma sarebbe più corretto definirla della co-terapia: le aziende agricole mettono a disposizione appezzamenti o animali per brevi percorsi di cura e riabilitazione come l’onoterapia, l’ippoterapia o l’imparare a (ri)prendersi cura di sé tramite la cura di un orto o di animali domestici.
La terza area è in realtà quella da cui è cominciato tutto. Nel 2002 Coldiretti inizia a lavorare su questo tema “per caso”, ammette Stefania Fumagalli. “Troverei scorretto dire che siamo stati dei geni: siamo stati fortunati perché l’Unione Europea ci ha finanziato un progetto importante che aveva lo scopo di studiare la qualità della vita delle donne in aree rurali” partendo dal presupposto che le donne incidono sulle scelte familiari, soprattutto dei figli, e dunque se la loro vita è grama la prima cosa che diranno ai figli sarà “andate via, fate altro”. Si è fatta una mappatura dei servizi, ed è emerso che la carenza maggiore riguardava la cura dei bambini, cosa non sorprendente, perché enti pubblici e cooperative non riuscivano a sostenere i costi di impianto e gestione di asili in zone scarsamente popolate. Di qui la sfida: perché non provare, sulla scorta dell’esperienza delle fattorie didattiche, a mettere in atto quella “multifunzionalità”, cioè la possibilità di svolgere anche altre attività, che una legge recentemente approvata dava alle aziende agricole? Nasce così, superando mille difficoltà, il primo Agrinido italiano, nei dintorni di Chivasso.
È proprio in quel periodo che avviene l’incontro con Francesco di Iacovo, docente di Economia e Politica Agraria all’Università di Pisa, “che ci dice: lo sapete che avete fatto agricoltura sociale? E noi a fare tanto d’occhi” ricorda Diego Furia, direttore di Coldiretti Torino. “Poi abbiamo approfondito e ci siamo appassionati, perché si tratta, da una parte, di fornire servizi e migliorare la vita per i soci e i residenti del territorio, dall’altra di offrire alle aziende la possibilità di diversificare e acquisire un ruolo nuovo nella comunità”.
Il lavoro è proseguito con iniziative di accoglienza diurna per anziani, doposcuola, centri estivi e invernali. E col progetto Agritata, che si ispira alle Tagesmutter (“mamme di giorno”) del Trentino: per poter avviare l’attività le aspiranti tate devono seguire un rigoroso percorso formativo e superare un esame. Il progetto è ancora in fase sperimentale, ma sta portando alla nascita di una nuova figura professionale e di un servizio flessibile, ottimale per le aree a densità abitativa molto bassa. Coldiretti Piemonte ha creato anche l’Osservatorio Regionale per l’Agricoltura Sociale, il primo in Italia.
Ma tutto questo ha un significato esclusivamente etico, per quanto lodevole, o porta anche ricadute economiche effettive? Roberto Moncalvo propone qualche spunto di riflessione. “Le aziende agricole che offrono servizi o accolgono persone in difficoltà,spiega, magari non ne ricavano un profitto diretto o immediato, ma il loro impegno sociale porta inevitabilmente un ritorno in termini di visibilità e reputazione, quindi un probabile aumento delle vendite e della dimensione economica dell’azienda stessa. Un altro esempio concretissimo viene dalle terapie occupazionali per soggetti con problemi psichiatrici: non solo l’inserimento familiare in fattoria ha costi molto inferiori a quello in comunità, ma l’esperienza può determinare, e l’ha fatto, una drastica diminuzione dei periodi di ricovero ospedaliero, dell’assunzione di farmaci e delle ore di psicoterapia, dunque un risparmio tangibile. Lo stesso vale per i centri diurni per anziani, per Agrinido e Agritata”.
Chi ancora percepisce quello agricolo come un mondo chiuso e conservatore si sorprenderà nel vedere tanta disponibilità a farsi coinvolgere nell’agricoltura sociale. Certo, la cultura del “dove si mangia in cinque si mangia in sei”, e del “tutti possono fare qualcosa” è tipica della tradizione contadina. Ma questo entusiasmo è anche frutto di un nuovo approccio di cui sono portatrici soprattutto, ma non esclusivamente, aziende dirette da giovani e da donne. Un approccio che, come precisa Paolo Marengo, coordinatore del progetto Campagna Amica, “comprende quanto sia fondamentale, per la sopravvivenza stessa delle aziende, la ricerca di nuove soluzioni, l’abbandono dell’autoreferenzialità a favore dello sviluppo di reti collaborative e di filiere che al tradizionale percorso produzione-distribuzione sappiano affiancare il collegamento orizzontale fra soggetti diversi e relazioni di mutuo aiuto. Insomma, l’agricoltore continua a fare l’agricoltore, ma deve dare un valore aggiunto al suo stare sul territorio, produrre valore non solo economico ma anche sociale e di comunità”.
Si tratta di cambiare mentalità, di superare i particolarismi per lavorare assieme, a cominciare dalla formazione e dall’elaborazione di linguaggi comuni fra agricoltori, operatori sociali, istituzioni, servizi sanitari. “Un lavoro lungo, conclude Moncalvo, ma bisogna crederci, e il Piemonte è molto avanti a livello nazionale, tanti hanno voglia di partire ed è magnifico vedere l’entusiasmo che c’è dietro. Insomma, c’è movimento”.