La rinascita dei borghi montani cuneesi
di Federica Liparoti
“Il vento fa il suo giro. E ogni cosa prima o poi ritorna” recita un antico proverbio di Ostana, un paesino di montagna nel Cuneese. E, forse, è proprio in queste parole a essere racchiusa l’essenza del destino di questo borgo.
Un secolo fa in paese, cinquecento case a 1.282 metri nell’alta Valle Po, vivevano mille e duecento persone. Negli anni Settanta erano rimasti solo cinque anziani, i giovani erano andati via per lavorare. Chi alla Olivetti a Ivrea, chi alla Fiat a Torino. Erano gli anni terribili dello spopolamento. Oggi invece vi risiedono quarantuno abitanti, di cui cinque bambini e due adolescenti. “Quello che distingue questo paese in alta valle è un’irresistibile volontà di rinascere“, spiega il sindaco Giacomo Lombardo, tornato a Ostana con la famiglia nel 1985. “In quegli anni il borgo rischiava di morire”, ricorda Lombardo, “non volevo che i luoghi della mia infanzia diventassero una città fantasma. Così ho deciso di ritornare”.
A differenza di altre borgate vicine, la speculazione edilizia non aveva aggredito Ostana, “perciò abbiamo puntato subito sul recupero delle antiche abitazioni”, continua Lombardo. “Impedimmo la costruzione di nuovi edifici. Abbiamo invitato i proprietari a ristrutturare le case seguendo poche ma precise regole: l’uso dei materiali tradizionali, pietra e legno, il rispetto delle forme architettoniche alpine. E così, in questi anni la ristrutturazione ha coinvolto due terzi dei cinquecento edifici totali”.
Pian piano i giovani iniziano a tornare in quei luoghi. In tanti – fra i nipoti di chi era emigrato – cominciano a guardare alla montagna come a un’opportunità. Aprono due ristoranti, un rifugio, un agriturismo. C’è l’archeologo che in paese fa il muratore e la biologa che ha avviato l’azienda agricola “L’Orto di Ostana”, dove coltiva verdure biologiche e piante officinali.
L’inventiva non manca. Quest’estate il sindaco ha messo in vendita un’intera frazione del piccolo comune, una ventina di casette a quota 1.600 metri. “Base d’asta? Centoventimila euro” chiarisce Lombardo. “Abbiamo ricevuto manifestazioni d’interesse dagli Stati Uniti e dalla Malesia ma ad aggiudicarsi la borgata Ambornetti è stata una cordata di imprenditori piemontesi”.
A capo dell’operazione Carlo Ferraro, classe 1975, di Saluzzo, imprenditore e titolare di una ditta metalmeccanica. Qualche anno fa con degli amici ha dato vita a una società che sviluppa tecnologie per il trattamento dei rifiuti liquidi e solidi in piccoli villaggi. Proprio come quello appena acquistato. “La borgata diventerà un albergo diffuso ed ecosostenibile”, spiega Ferraro. “L‘insediamento non è collegato alla rete idrica né a quella elettrica. Questo ci consentirà di testare i nostri dispositivi per lo smaltimento dei rifiuti e per l’approvvigionamento di acqua e luce delle abitazioni”.
Chi ritorna non è un sognatore romantico che vuole vivere come i propri avi. In montagna porta qualcosa di nuovo. E infatti, “tornare non è un movimento all’indietro. Suggerisce un lavoro preliminare in avanti di natura mentale, culturale, cui educarsi. Significa rivolgere ai luoghi uno sguardo nuovo, nel senso di riguardarli e insieme di averne riguardo. Tanto più in questa fase di crisi del nostro modello di sviluppo e di abbandono di intere aree del lavoro”. È con queste parole che la scrittrice Antonella Tarpino definisce il movimento dei ritornanti, quei giovani che con imprese innovative rianimano territori ai margini dello sviluppo. Si organizzano in cooperative oppure rilevano aziende di famiglia che innovano aprendosi ai nuovi strumenti digitali e al commercio elettronico. “Spesso è proprio in queste terre abbandonate che nascono nuovi modi di fare turismo e un’agricoltura di qualità, orientata a incontrare una nuova domanda di tracciabilità che sta crescendo nei consumatori”, riflette il sociologo Aldo Bonomi in un suo editoriale sul Sole 24 Ore. “Questi giovani che ritornano alla terra a volte in uscita dalla città, a volte da esperienze da cervelli in fuga all’estero, stanno contribuendo alla rinascita dell’agricoltura piemontese”.
Agricoltura che sempre più sta diventando un’attività innovativa e uscendo dalla tradizionale rappresentazione di marginalità. Nel 2016 in Piemonte, segnala Coldiretti, i titolari di impresa agricola con meno di 40 anni sono aumentati di oltre il 20% rispetto all’anno precedente. Un dato che sottolinea come l’agricoltura sappia, da un lato, dare prospettive di futuro ai giovani e dall’altro, salvare i terreni di montagna dall’incuria, dal degrado e persino dalle frane.
Elementi tanto preziosi che la fondazione Nuto Revelli di Cuneo ha deciso di valorizzare, avviando una vera e propria “Scuola del Ritorno” tesa ad animare il riuso dei borghi e dei comuni abbandonati. Perché tornare in montagna è anche un lavoro concreto, operativo. Così è nata la scuola, con l’obiettivo di mettere in comune esperienze e di valorizzare i saperi piemontesi del passato, declinati però al futuro.
I corsi si tengono a Paraloup, un alpeggio di montagna in provincia di Cuneo, immerso nei boschi e intriso di storia e valore civile: nel 1943 la prima banda partigiana di Giustizia e Libertà si insediò proprio qui, nella borgata più alta del comune di Rittana, 1.360 metri in Valle Stura. Dopo anni di abbandono e spopolamento, nel 2013 la fondazione dedicata allo scrittore piemontese de L’anello Forte ha deciso di ristrutturare gli edifici in modo ecosostenibile, trasformandoli in museo e strutture ricettive.
“Oggi vivono qui i giovani con gli stessi cognomi di chi aveva abbandonato l’alpeggio negli anni Cinquanta. Gestiscono lo spazio espositivo, la biblioteca, il ristorante e due baite rifugio”, spiega Antonella Tarpino. “In quest’area ci sono novanta borgate abbandonate. Non è un caso che la prima Scuola del Ritorno sia nata proprio in Piemonte, regione che è stata pioniere in diverse esperienze innovative su questo tema: dal primo Ecomuseo della Pastorizia, nato proprio in una borgata in Valle Stura, ai numerosi villaggi alpini ristrutturati, fino alle prime esperienze di associazioni fondiarie”. Anche l’idea dell’associazione fondiaria è di un piemontese, Andrea Cavallero, docente dell’Università di Torino, che da anni studia come superare la parcellizzazione dei terreni di montagna. “Qui c’è un’emergenza storica, mai sanata. Ad oggi, il territorio delle Alpi piemontesi è diviso in cinque milioni di particelle catastali. In Francia e in altri Paesi dell’Unione Europea esistono da decenni strumenti normativi che facilitano il recupero delle aree incolte. Finalmente anche in Italia si è capito l’importanza di una soluzione alla frammentazione degli appezzamenti nelle aree montane”. Capofila è stata proprio la Regione Piemonte che il 26 ottobre 2016 ha approvato un disegno di legge, il n. 215 del 2016, che introduce “Disposizioni per favorire la costituzione delle associazioni fondiarie e la valorizzazione dei terreni agricoli e forestali”. Grazie all’associazione fondiaria, attraverso la messa in comune dei fondi potranno nascere superfici di dimensioni adatte a essere redditizie per un’attività agricola e la Regione erogherà contributi per coprire fino all’80% delle spese di costituzione e 500 euro ad ettaro per la realizzazione dei miglioramenti fondiari necessari.
Un passo concreto perché la fiaba bucolica del “ritorno alla montagna”, da Ostana a Paraloup, con gli strumenti normativi e fiscali adeguati, non rimanga soltanto una favola bella.
Questo articolo ha vinto la X edizione del Premio Piemonte Mese, Sezione Economia, Turismo, Ambiente