Una nuova concezione della cremeria, partendo dalle materie prime
di Lucilla Cremoni
Una mattina di dicembre del 2015, mentre si chiacchierava prima di cominciare una riunione in vista della prima
edizione del Premio Gelato Giovani di cui è direttore tecnico, Alberto Marchetti dichiarò: “Stavolta ho trovato la mia strada!”.
A dire la verità, non ci sfiorava nemmeno l’idea che l’avesse persa o non gli fosse chiara, datosi che Marchetti è uno dei più noti e stimati gelatai italiani (o gelatieri, se la versione francesizzante vi sembra più chic; per la cronaca, lui si definisce “gelataio”). Anche il suo vecchio motto, “Mi chiamo Alberto Marchetti e amo fare il gelato”, non lascia molto spazio ai dubbi.
Come se non bastasse, lui conferma che la sua passione per il gelato dura “da quando son nato”. Cioè dal 1975, e proprio quell’anno suo padre “trasforma il bar del paese in una cremeria-pasticceria”, una di quelle grosse cremerie anni Settanta “che oggi sono un po’ scomparse, quelle che aprivano alle sei del mattino con le colazioni e chiudevano a mezzanotte”.
Alberto da sempre vive “nell’esercizio pubblico”. Letteralmente: lì torna dopo la scuola, fa i compiti, passa le domeniche. Ma nascere in gelateria non rende automaticamente bravi gelatai: per diventarlo bisogna studiare e lavorare sodo. Alberto segue il percorso clessico: istituto alberghiero, stagioni, esperienze varie per poi, verso i vent’anni, tornare alle radici, scegliendo “quella che, tra le cose che faceva mio padre, ritenevo fosse la strada giusta per me. E mi sono dedicato al gelato. Adesso c’è la voglia, dalla piccola gelateria che ho portato avanti per anni, di fare un locale più grande, più accogliente, però visto con un’altra ottica. Non più bar con gelato o pasticceria ma un’area di incontro, un locale idove ci si accomoda, si assaggia, si viene coccolati prima di comprare. Un locale-casa”.
Casa Marchetti, appunto. L’idea “non è solo comprare, è capire perché qui ci sono queste materie prime, da dove arrivano, perché le uso. E si possono anche comprare”.
Quindi è questa la strada di cui parlavi, giusto? “Sì, ho sempre avuto il sogno di aprire un locale grande. Abbiamo iniziato con Alessia (partner e moglie, ndr) aprendo la prima gelateria piccolina, poi le gelaterie in via Po e ad Alassio, adesso è venuta questa possibilità e credo proprio che la strada sia questa”.
Casa Marchetti è al civico 248 di piazza CLN. Chi non è pratico di Torino potrà riconoscere il luogo come uno dei più celebri e inquietanti set di “Profondo Rosso” – che, guarda le combinazioni, uscì proprio nel 1975, e sono talmente tanti quelli che gliel’hanno fatto notare che Alberto si è comprato il dvd e ha finalmente visto questo caposaldo del cinema de paura.
Chi è di Torino sa pure che quello era l’angolo più triste della piazza creata negli anni Trenta con il rifacimento di Via Roma: non tanto per via della cupa architettura littoria tronfia di marmi, graniti e maschie ortogonalità, ma soprattutto perché da molti anni quello spazio commerciale aveva visto alternarsi locali o negozi squallidi a periodi di chiusura e degrado. Sotto questo punto di vista, Marchetti ha il non piccolo merito di aver riqualificato un angolo centralissimo di Torino e di averlo restituito ai torinesi (e non), perché una gelateria non è un luogo esclusivo di cui la maggior parte di noi può al massimo guardare le vetrine, ma è accessibile a tutti.
La differenza è che questo non è solo un posto dove prendersi un gelato, ma vuole “essere più vicino al cliente, avere dei momenti per raccontare”. Questo il senso dello spazio al piano di sotto con l’aula didattica, gli scaffali con i libri, lo spazio dedicato ai produttori – di nocciole, cioccolato, caffè, vermouth… – e anche un angolo di storia della gelateria con stampi e attrezzature d’epoca in collaborazione con la casa editrice Chiriotti e Cono Artic.
Non è esagerato parlare anche di operazione culturale. Da tempo, infatti, Marchetti propugna un rinnovamento dell’idea stessa di cremeria: “Certo. Compatibilmente con i tempi della burocrazia italiana, Casa Marchetti darà anche la possibilità di assaggiare dei dessert al piatto, un po’ come succede in un ristorante. Ma soprattutto sarà bello poter far vedere al cliente come si fanno, come nasce un dessert. Faremo delle serate con gli chef, e da settembre avremo il calendario definitivo”. Ma non il solito show-cooking. “Quello che mi piacerebbe, ad esempio, è che il cliente comprasse una vaschetta di gelato ma, una volta a casa, anziché mettere le classiche due palline nel bicchiere potesse usarlo per comporre un dessert partendo dalle idee che gli abbiamo dato durante gli incontri”.
Facciamo un passo indietro. Parliamo di materie prime.
“C’è da dire che Casa Marchetti – anche le altre gelaterie Marchetti, ma soprattutto questa per motivi di spazio – ha come presupposto girare la gelateria”.
Cioè?
“Fino ad ora, il messaggio principale è stato: facciamo il gelato davanti a tutti, facciamo vedere la macchina – io già dieci anni fa avevo messo una telecamera sopra i mantecatori. Poi, vedendo anche le eterne polemiche sull’artigianalità del settore, ho pensato: giriamo la gelateria, mettiamo in vetrina il magazzino, mettiamo a vista quello che usiamo. Poi
mettiamo anche le macchine. Questo mi pare un passaggio importante di trasparenza. Francamente, non so se io faccio “gelato artigianale”, e forse non mi interessa neanche. Mi interessa che il mio cliente sappia cosa utilizzo, quali sono le materie prime. Voglio fare delle materie prime il centro, e dare anche la possibilità di comprarle”.
Abbiamo sfiorato il discorso del gelato nei dessert da ristorazione: ma esiste una differenza fra gelato da gelateria e gelato da dessert in ristorazione?
“No, almeno non per me. Nella ristorazione io voglio portare lo stesso identico gelato che propongo in gelateria. L’idea è usare il gelato come elemento principale, o comunque importante, nel dessert, ed è quello che abbiamo fatto con Igor Macchia. Il gelato è sempre stato trascurato nella ristorazione: che tu andassi in pizzeria o in un ristorante di livello ti ritrovavi le due palline. Noi vogliamo dargli valore, creando dei dessert col gelato ma senza stravolgere il gelato stesso. Magari studiando dei gusti che facciano da filo conduttore fra le componenti del dessert, ma si deve sempre trattare di gelato che avrebbe senso di per sé”.
E il gelato salato, o gastronomico?
“Si può fare, certo, ma non fa per me. Io non farei mai un gelato al di fuori di latticini o frutta, al limite verdura. Un gelato estremo io non lo farei, sia perché non è nelle mie corde, sia perché non lo venderei. Quello che non si può anche mettere in un cono io non lo porterei in ristorazione. Questo non vuol dire che non si possa anche giocare. Ad esempio con Igor avevamo fatto la pizza. Non un gelato al gusto pizza, ma un gelato che la ricordava: il gelato era alla farina bona, poi era abbinato con pangrattato, foglie di rucola, scaglie di Grana… però il gelato era lo stesso che si trova in gelateria. Un gelato al gusto pizza, o al gamberetto, io non lo farei mai, rimango nel dolce”.
Insomma, non è detto che ci debba essere sempre la sfida a tutti i costi…
“O che si debba sempre far troppo parlare. O meglio: a me piacerebbe che si riuscisse a far parlare anche con una semplice crema. Invece lì abbiamo difficoltà: fanno parlare solo le cose strane, e questo distoglie attenzione dalle materie prime. A me invece piacerebbe che facesse parlare anche la ricerca sulla nocciola, per dire”.
Questo è un punto importante perché, come si vede anche nei concorsi per le scuole, i ragazzi, per entusiasmo ma anche per influenza dei media, tendono a presentare ricette elaboratissime, con tantissimi ingredienti, che poi non riescono a gestire o che non danno risultati significativi, mentre sono pochi quelli che mostrano vera attenzione alla materia prima o all’eccellenza della, e nella (apparente) semplicità…
“Sì, e per questo al Premio Gelato Giovani avevamo messo come tema principale la crema, con la quale poi preparare il dessert, ma anche da mangiare tal quale, e che come tale è anche stata valutata. Per la prossima edizione si potrebbe, ad esempio, partire dalla nocciola, che apre infinite possibilità, dalla varietà e provenienza della nocciola al modo in cui viene usata, ma quello che conta è che sono tutte opportunità di ricerca”.
Il tuo gelato è presidio Slow Food?
“Si sta parlando di creare un presidio del gelato ma è complicato. Io sono sostenitore della Fondazione Slow Food, loro sono miei partner e faremo una parete in cui Slow Food racconterà quello che secondo loro deve essere il gelato, partendo dalle materie prime. Si utilizzano prodotti del Presidi per fare il gelato, ma questo non rende il gelato un presidio, perché si aprirebbero poi problemi con gli utilizzi dei marchi, che adesso si stanno moltiplicando eccessivamente”.
A fronte di questo proliferare, quanto pensi che valgano ancora i marchi?
“Non lo so, io dalla giacca li ho tolti tutti. Nel settore ci sono troppi marchi e troppi concorsi; troppi vincitori, e poca attenzione alla materia prima. Discorso diverso per i concorsi per le scuole, che sono invece dei momenti importanti di formazione. E c’è troppo Facebook”.
Cioè?
“Paradossalmente, un ragazzo fa una settimana di corso, apre una gelateria e comincia a insegnare sui social. E ha un seguito. Io vivo nel gelato da quarant’anni e sto continuando a imparare. Questo vale per tutto il settore del food ovviamente, non solo per la gelateria. Si vuole diventare famosi a tutti i costi”.
Cosa bisogna far capire a un ragazzo che magari ha la testa piena di sogni e vede la classica pubblicità “apri la gelateria dei tuoi sogni con settemila euro”?
“Per carità! Bisogna fare un sacco di gavetta. In gelateria, il mestiere lo impari in bottega. Per la ristorazione, o anche la pasticceria, la scuola alberghiera ti dà delle basi. Non è così per la gelateria, chein questo senso è ancora una Cenerentola. Per la gelateria, ci sono corsi organizzati da associazioni professionali, che vanno bene quando si tratta di corsi avanzati e di aggiornamento e seminari in cui confrontarsi tra professionisti. Non per cominciare da zero, perché in due settimane di corso fatto di formule su una lavagna un intero mestiere non si impara”.
Ma la tecnica e la chimica contano…
“È vero che il gelato è una composizione di bilanciatura, ma quando è fatto e venduto, come nel mio caso, la questione è meno importante. Questo non significa che io non stia attento alla bilanciatura del gelato, ma una volta che mi assicuro che sia tecnicamente corretto non mi faccio ossessionare dai parametri fissi (tot grassi, tot zuccheri eccetera), altrimenti finiremmo a fare i gelati tutti uguali”.
Ultima domanda: tu parli spesso di “uscire dal laboratorio”. Cosa vuol dire?
“Vuol dire non stare in laboratorio ad aspettare i rappresentanti ma girare alla ricerca delle materie prime, dei prodotti e dei produttori particolari: di latticini, frutta, nocciole, uova, biscotteria eccetera. Quelli che il rappresentante di un’azienda, per quanto buona, non ti può offrire. Questo vuol dire sacrificare i giorni liberi e imparare a delegare il lavoro in laboratorio, ma è l’unico modo per fare ricerca e per creare un gelato che non sia solo buono, ma anche unico”.
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