Pietra, legno e nient’altro
L’architettura e la cultura Walser vogliono diventare patrimonio Unesco
di Federica Liparoti
Pietra, legno del posto e nient’altro. Da secoli i Walser hanno costruito le loro case così. Veri e propri gioielli di architettura, ogni abitazione è una cosa a sé ed è impossibile trovarne una uguale all’altra. Per tutelare questo patrimonio materiale e immateriale, fatto di costruzioni, ma anche di lingua e tradizioni, le comunità walser intendono chiedere l’adesione all’Unesco.
Il primo passo è stato un convegno nel palazzo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a Roma, dove una delegazione di amministratori di quindicina di Comuni, tra cui Alagna, in provincia di Vercelli, e Formazza, in provincia del Verbano-Cusio-Ossola, hanno presentato il popolo walser. Una popolazione dalla storia antica.
Nell’ottavo secolo d.C. alcune tribù alemanne, originarie della Svevia, attuale Germania meridionale, migrarono verso sud. Grazie a una profonda conoscenza delle tecniche per la coltivazione e l’allevamento in alta montagna raggiunsero la valle del Rodano e l’attuale distretto vallese del Goms. Qui, nel 900, fondarono per la prima volta nella storia europea un insediamento stabile a quasi 1.500 metri sul livello del mare.
È dal Goms che tra il XII e il XIII secolo partirono i colonizzatori di ventura, i Walser, verso diverse località dell’arco alpino in Italia, Svizzera, Liechtenstein, Austria e Francia. Il loro nome è una contrazione del tedesco Wallister, cioè vallesano, abitante del Canton Vallese. I loro trasferimenti avvenivano a piedi o a dorso di mulo, durante le giornate d’estate. Diedero avvio a una colonizzazione graduale, spinta da guerre e carestie, alla ricerca di pascoli e terre ospitali. Si spinsero fino alle terre a sud del Monte Rosa, attraverso il Colle di San Teodulo, tra Zermatt e Valtournenche e il passo del Monte Moro, tra Saas e Anzasca. Raggiunsero Gressoney, Alagna, Rimella, Macugnaga, Rima, Ornavasso. In Valle d’Aosta fondarono alcuni centri nella valle di Ayas, come St. Jacques, nota anche come “canton des Allemands”, contrada dei tedeschi. Nella Valle di Gressoney fondarono Gressoney, Issime e il villaggio di Niel. In queste valli, le “colonie” conservano ancora oggi tracce della loro lingua originaria.
“Dalla Svizzera tedesca i Walser si muovevano verso territori più ospitali, verso il Monte Rosa. Ciò che li distingueva dalle popolazioni autoctone era la loro arte di vivere, coltivare e costruire in montagna. Raggiungevano territori dall’altitudine di 1.500 metri circa, in cui erano in grado di stanziarsi. A quel tempo nessuno abitava a quella quota” spiega Roberta Locca, responsabile del Museo Etnografico Walser-Val Vogna.
Un popolo di viaggiatori, di conoscitori dei segreti della montagna, ma soprattutto di uomini liberi. In un Medioevo dove la servitù della gleba era all’ordine del giorno, i Walser crearono un sistema giuridico innovativo. Si affermarono come uomini liberi dalle imposte, dai pesi della servitù e dalle limitazioni ai matrimoni. Inoltre, potevano trasferire il loro domicilio liberamente. Grazie alla loro specializzazione nel disboscamento, nell’allevamento, nella sopravvivenza ad alte quote ricevevano libertà personale, libero affitto ereditario ed autonomia amministrativa del comune. I Walser modificarono il diritto dei coloni facendolo diventare un modello all’avanguardia.
“Ogni micro insediamento, evidenzia Locca, ha sviluppato caratteristiche diverse, ma da Alagna a Macugnaga, dalla Val Formazza a Gressoney si parlava una lingua simile al dialetto tedesco, il titsch. Un idioma che si è mantenuto grazie all’isolamento in montagna e che i tedeschi venivano ad ascoltare per tornare indietro nel tempo. Ancora oggi la lingua Walser è parlata, seppur sempre meno, e gli abitanti organizzano scuole e corsi perché questo antico sapere non si disperda. Un sapere fatto di un idioma, di tradizioni, ma soprattutto di uno stile costruttivo, di una architettura unica nel suo genere. I Walser seppero adattare il proprio stile di vita alle condizioni non facili tipiche delle aree dal clima molto rigido, sviluppando sistemi di disboscamento e di coltura dei terreni di montagna. Misero a punto una tecnica per la costruzione di abitazioni permanenti e temporanee che determinò lo stile delle abitazioni, funzionale allo sfruttamento del suolo ad alte quote, offrendo le migliori condizioni di vita possibile alla popolazione. Consolidatosi nei secoli XVII e XVIII, ha mantenuto immutati alcuni caratteri che si sono conservati intatti sino a oggi”.
Uno degli elementi più caratteristici di questa architettura, il sistema costruttivo detto del Blockbau, consiste nell’uso di tronchi squadrati e assemblati con incastri angolari. Diffuso anche in altre parti d’Europa, la popolazione Walser ne ha però affinato la tecnologia e la qualità architettonica, tanto da farne un elemento caratteristico della sua area di diffusione.
“La fortuna del nostro territorio, conclude Locca, sta nel buon senso dei proprietari privati coadiuvato da una particolare attenzione da parte della Soprintendenza. Tutto è vincolato e chi vuole ristrutturare deve farlo seguendo le linee architettoniche e stilistiche walser. Non sono ammesse deroghe. Inoltre, abbiamo diverse case-museo, anche private, rimaste intatte anche negli spazi interni e che permettono di conoscere la vita e il lavoro tradizionale in alta quota”. Come la Casa Museo Walser-Val Vogna, nata nel 1987 per volontà della famiglia Locca. Allestita all’interno di una tipica casa in pietra e legno, è testimone di antichi usi e costumi, e dell’ingegno e laboriosità delle genti che per secoli hanno abitato la valle. Un luogo di bellezza autentica e rara, poco nota agli itinerari del turismo di massa, in cui si susseguono villaggi incantati dove ammirare piccoli mondi antichi.