Remigio Zena e “La cavalcata”
Il matrimonio infelice della marchesa Lascaris forse ispirazione per un racconto a tinte fosche
di Piervittorio Formichetti
I racconti di genere horror, magico e occultistico di autori italiani entrati nella storia della letteratura italiana sono poco conosciuti rispetto alle opere analoghe straniere: moltissimi hanno letto Dracula di Bram Stoker o Frankenstein di Mary Shelley, ma pochi conoscono i racconti tenebrosi di Igino Ugo Tarchetti e alcuni simili di Luigi Capuana o Remigio Zena. Inoltre, anche la letteratura horror, essendo una forma d’arte, trae origine dalle circostanze più disparate: leggende, folklore, avvenimenti storici più o meno importanti, fatti di cronaca nera, episodi di vita immaginata o vissuta dai loro autori (ad esempio i “Magri Notturni”, figure spettrali che apparivano negli incubi di H.P. Lovecraft da bambino, oppure il vampiro che si levava dalla tomba nell’incubo che Stoker – secondo ciò che scrisse lui stesso – ebbe dopo un’indigestione di gamberi!). Perciò è sorprendente scoprire che un racconto horror italiano non molto conosciuto possa probabilmente aver tratto origine anche da un episodio della storia piemontese, avvenuto nell’alta società di Torino.
Si tratta di La cavalcata, racconto incluso nella breve raccolta Confessione postuma (1897, ripubblicato soltanto nel 1977) di Remigio Zena, pseudonimo di Gaspare Invrea, nato a Torino nel 1850 da una famiglia dell’aristocrazia genovese (da cui Zena, appunto) e morto nel 1917. Zena non fu digiuno di frequentazioni nell’alta società, né di viaggi all’estero, soprattutto nell’imperoottomano: prima di dedicarsi alla poesia “scapigliata” e ai romanzi (nei quali emerge l’influsso dello stile veristico e popolare del siciliano Giovanni Verga), fu a Costantinopoli, in Egitto e fu avvocato militare nel primo corpo d’armata del Regio Esercito inviato a Massaua, nell’Africa Orientale, nel 1885. Quindi poté ascoltare e leggere non poche notizie su fatti, dicerie e pettegolezzi riguardanti le famiglie nobili sue contemporanee, soprattutto le più importanti nell’Italia unita da pochi decenni: la casata regnante dei Savoia e quelle che intorno a essa gravitavano a Torino.
In La cavalcata, ambientato negli anni contemporanei dell’autore, il giallo ruota attorno al ruolo che la “duchessa” Gladys e il suo cavallo nero Caliban avrebbero in quella che subito pare una scuola clandestina d’equitazione, ma che si rivelerà uno strano rito paganeggiante e necromantico, “la cavalcata” appunto: di notte, nella campagna intorno a Palermo, in un’antica chiesa sconsacrata, “uomini e donne alla rinfusa […] come se avessero addosso l’argento vivo dell’inquietudine […] tutti a piedi nudi” si riuniscono davanti al fuoco di un enorme braciere e, tra “qualche scoppio di risa isteriche e la cadenza martellata di un tamburello, spezzata a tratti da un lungo trillo femminile, acutissimo, gorgheggiante”, provocano su se stessi uno stato di trance fino a perdere il contatto con la realtà e, in questo stato di coscienza alterato, montano i loro destrieri e cavalcano furiosamente nella campagna credendo, “per arte satanica, di superare immani distanze in brevissimo spazio di tempo e di luogo perseguendo un fantasma”. Il fantasma sarebbe, secondo un’antica leggenda (probabilmente creataad hocdall’autore,assemblandomolti riferimenti ad autentici personaggi, testi ed eresie gnostico-cristiane dell’età tardoantica), quello di Erodiade, cognata e concubina del re Erode Antipa, che fece decapitare Giovanni Battista. La donna fantasma, quasi in un contrappasso dantesco, appare decapitata in sella a un cavallo spettrale, che con i denti regge per i capelli la sua testa “urlante nelle tenebre”. Si scoprirà soltanto alla fine che la duchessa Gladys, assidua e fervente frequentatrice della cavalcata notturna, sarà così assorbita dal rito malefico da prendere il posto dell’amazzone fantasma e replicarne l’infernale destino: il suo cadavere verrà ritrovato straziato e decapitato, e nella bocca del suo cavallo Caliban (anche lui morto) si troveranno ciocche di capelli biondi della sua padrona; ma finché la sua orribile fine non viene scoperta, la duchessa sembra misteriosamente scomparsa da Palermo. Tra coloro che seguono gli indizi, le voci e le informazioni sul caso, c’è il commissario di polizia Pellegrino Gullifà, che, incaricato di indagare sul mistero delle cavalcate notturne, come molti altri palermitani crede che la dama sia fuggita all’estero vestita da suora di carità insieme al suo amante ammalato. Questo escamotage salva in parte la reputazione di Gladys agli occhi e alle orecchie della gente, e attenua il risentimento verso di lei nel marito, l’ingegnere Teodoro Lascaris.
E qui il racconto di Zena sembra intrecciarsi con una delle vere famiglie nobili della storia torinese. La suocera dello stesso Zena si chiamava Ernestina Avogadro-Lascaris. In La cavalcata, Lascaris è descritto a partire da un documento della Questura: “Lascaris Alessio Teodoro, di Costantino e di Triandaphillidis Elena, sudditi greci, nato a Livorno nel 1870 […] rappresentante a Palermo di una Società mineraria inglese”, mentre i discorsi del giorno e della notte fornivano ragguagli assai più diffusi, appioppando all’ingegnere il titolo di duca – titolo che egli […] tollerava volentieri e lasciava usufruire largamente da sua moglie – facendolo discendere in linea retta, e forse primogenita, da una dinastia degli imperatori d’Oriente”. Dunque un personaggio illustre ma ambiguo, che, dopo la presunta fuga di sua moglie, “avrebbe anche torto a lagnarsi d’altri che di sé medesimo, poiché, sebbene in generale non gli siano cessate le benevolenze affettuose che aveva saputo catturarsi […], ora vengono a fior d’acqua [anche]gli squilibri e le violenze del suo carattere, certe vessazioni continue, certe scene intime spaventose di nevrastenia, dalle quali era ineluttabile che un giorno o l’altro la moglie finisse per liberarsi”.
Una personalità simile, col medesimo cognome e con un’analoga vicenda matrimoniale, fu colui che, quasi involontariamente, “battezzò” il palazzo torinese oggi sede del Consiglio Regionale: il marchese Giovanni Agostino Lascaris di Ventimiglia (1776-1838), discendente di una casata che “vantava antenati tra gli imperatori di Bisanzio”, precisamente Teodoro II Lascaris (1221-1258), con il quale la sua famiglia d’origine s’era imparentata mediante il matrimonio di una delle sue figlie con il conte Pietro Guglielmo di Ventimiglia, “associando così per sempre il nome ligure a quello greco” come ricorda Pier Luigi Berbotto (Palazzo Lascaris, inserto di “Bell’Italia” n. 174, ottobre 2000). Agostino Lascaris entrò in possesso del palazzo grazie al matrimonio con l’erede proprietaria, Cristina Giuseppa Marianna Carron marchesa di San Tommaso, detta Giuseppina (1786-1841) la cui famiglia l’aveva acquistato nel 1720.
Secondo gli storici dell’arte Arabella Cifani e Franco Monetti, autori di uno studio sulla storia di Palazzo Lascaris, il marchese era “persona di grande ingegno, dedita a importanti opere scientifiche e sociali”, ma nascondeva “un insospettabile lato oscuro e forse patologico”: sposatosi con Giuseppina nel 1803, si rivelò prevaricatore e violento, talvolta furioso, nei confronti di sua moglie. “In pubblico mostrava”, scrisse l’amico senatore Luigi Cibrario nel suo necrologio, “un fare sereno e modi gentili”; il marchese Massimo Taparelli d’Azeglio, incontrato Lascaris a Roma nel 1822, lo giudicò “ottimo galantuomo, perfetto gentiluomo, colto, amorevole” in compagnia di Giuseppina “piccola, gracile di salute, non certo bella ma dolce e buona, e per carattere ferma come una torre”. Anche dai ritratti dei due coniugi, oggi custoditi presso la Fondazione “Camillo Cavour” di Santena, emerge qualcosa del loro temperamento: in quello di Agostino (1832-35, attribuibile a Pietro Ayres) gli occhi del nobiluomo, posto in uno spazio fosco, sembrano evitare con freddezza lo sguardo dell’osservatore, mentre Giuseppina Carron nel suo ritratto (1828-29, d’autore non identificato) sembra guardarci con occhi molto emotivi, quasi sgranati, come volesse esprimere senza parlare la sofferenza dovuta alle crisi d’ira del marito. Proprio pochi mesi prima dell’esecuzione di questo dipinto, nell’ottobre del 1827 Agostino Lascaris era divenuto procuratore generale di sua moglie, facendosi nominare (forse anche con metodi violenti) responsabile di tutti i suoi beni compreso il palazzo; anche per questo, evidentemente, l’infelicità della donna si aggravò, tanto che nell’autunno del 1830 fuggì – appunto come la duchessa Lascaris de La cavalcata – da Torino diretta a Pisa, da cui non fece mai più ritorno. Complice della sua fuga fu lo stesso conte Camillo Benso di Cavour, il quale“profondamente conobbe e frequentò Agostino”, così da poter scrivere in una lettera che la fuga di Giuseppina fu“un gran passo, una misura violenta”ma ben motivata: “Non era più possibile vivere con un energumeno frenetico”, soggetto a imprevedibili raptusnei quali dominavano in lui “l’irrequietezza e l’irascibilità. Erano frequenti le terribili scenate, durante le quali minacciava di morte la moglie”, alternate a momenti di tranquillità in cui riconosceva e lodava le virtù morali della donna. Agostino Lascaris morì a Saint-Vincent, in Valle d’Aosta, il 28 luglio 1838; pochi giorni dopo, il 2 agosto, Cavour commentò la notizia più con distacco che con tristezza, scrivendo di lui che era stato “un homme qui fesait le malheur des autres en se tormentant lui-même”: un uomo che faceva l’infelicità degli altri e si tormentava lui stesso.