Incontro con Fabio Geda
di Marco Doddis
Qual è il posto migliore per incontrare uno scrittore? Facile: il Circolo dei Lettori. Quello è il suo ambiente d’elezione, il suo habitat naturale. Vi si muove come un pesce nell’acqua. Attenzione, però: quando i pescatori sono tanti e affamati, si corre il rischio di rimanere a bocca asciutta e di aver fatto un viaggio a vuoto. Più o meno come stava per succedere a noi.
Il nostro pesce si chiama Fabio Geda: torinese, trentotto anni, col vizio della scrittura da quando ne aveva quattordici (proprio a quell’età, ai tempi del liceo, mise su carta il suo primo racconto, ispirandosi all’amato Stephen King), Fabio ci ha dato appuntamento al Circolo in una serata particolare. Una serata in cui i lettori, appunto, possono intrattenersi e dialogare con una decina di autori piemontesi, consumando insieme riti collettivi come l’aperitivo o l’autografo.
La truppa di pescatori attorno a Fabio è nutrita. La cosa, se da una parte ci infastidisce (vorremmo avere l’esclusiva), dall’altra ci conferma quanto già sospettavamo: il pesce in questione è di prima qualità.
Dunque, tra un’interruzione e l’altra (c’è chi gli punta un faro in faccia, chi si fa firmare una copia dell’ultimo libro, chi gli mette un microfono sotto i denti, chi gli stringe la mano), proviamo a raccogliere qualche informazione sulla sua vicenda umana e professionale. Partendo dalla fine, da quando, cioè, ha vinto l’ultimo premio, l’ultimo di una serie già lunghetta, se pensiamo che ha pubblicato solo tre romanzi.
L’8 dicembre scorso, la trasmissione radiofonica “Fahrenheit” (Radio Tre) ha assegnato al suo Nel mare ci sono i coccodrilli il riconoscimento di libro dell’anno. “Èun premio che mi rende assolutamente orgoglioso, gonfia il petto Fabio, perché la trasmissione è un baluardo di resistenza culturale e perché nasce dal basso, dal voto dei lettori”.
A questo proposito, dice di apprezzare soprattutto i riconoscimenti della gente, di coloro
che lo leggono, e di non badare più di tanto ai giudizi, spesso cristallizzati, della critica. Poi, scavando nella questione del rapporto con il pubblico, si va inevitabilmente a parare sull’infanzia, sull’adolescenza, sui giovani. Fabio, infatti, scrive storie di ragazzi per (non solo, ovviamente) ragazzi. È su quel complesso pianeta che ha trovato l’ospitalità migliore, come attestano pure gli altri due romanzi, Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani (2007) e L’esatta sequenza dei gesti (2008). “L’ultimo libro sta avendo un gran successo nelle scuole. Ci sono ragazzini di quindici anni che mi scrivono su Facebook dicendomi che si sono emozionati, che la storia li ha portati a riflettere. Ecco, questo è il vero premio. È meraviglioso!”
Ma perché, domandiamo, si ritrova questa costante della gioventù nella tua opera? “È un periodo della vita che mi affascina molto, così come la vecchiaia. Non so dire il perché, ma non credo che ci sia un legame con il mio vissuto personale di quell’età. Piuttosto, direi che ogni scrittore ha dei temi prediletti, che lo muovono all’indagine. Ecco, quello del crescere è il mio preferito, è un po’ la mia ossessione. E poi, sicuramente, la mia attività di educatore ha avuto grande importanza in questo”.
Certo. È da là che vengono le lettere, le parole, le frasi che Fabio riversa sul computer. Dietro al ritratto affatto superficiale che i suoi scritti dipingono di quel mondo, si deve celare un’esperienza personale. Per forza: uno che non ha dimestichezza con i ragazzi, con adolescenze rese problematiche da questioni sociali o etniche, non potrebbe parlarne con tanta disinvoltura. “Dopo aver lavorato per dodici anni con dei giovani, aver sofferto e vissuto con loro, ho sentito il bisogno di esternare questa esperienza, di comunicarla agli altri. Ora che non sono in prima linea da un anno, ne sento già la mancanza e vorrei tornare. Anche perché i miei libri nascono da quella situazione”.
Ci viene spontaneo chiedergli quali siano state le mansioni svolte in tutto quel tempo. “Mi sono occupato soprattutto di minori stranieri, a cui erano legate anche situazioni di disagio. Lavoravo presso la Cooperativa Valpiana, la cui sede principale è nel quartiere San Donato, a Torino. Devo dire che la cooperativa svolge un’azione importantissima sul territorio”.
Siamo sicuri che un educatore del genere farebbe comodo a qualsiasi bambino, prima di tutto perché ha molte storie da raccontargli. Magari, un giorno, Fabio finirà in una scuola, visto che il piglio del docente non gli manca di certo. Quando proviamo a suggerglielo, ci regala un sorriso.
“Sì, dice, mi sono sempre sentito un insegnante mancato. Infatti, provo a rifarmi collaborando in quelle vesti per la Scuola Holden. Comunque, se potessi scegliere, mi piacerebbe molto insegnare alle medie inferiori. Penso che quella tra i dieci e i quattordici anni sia un’età molto interessante per la sua complessità”.
Decisamente un buon maestro-professore, uno che concederebbe ai ragazzi anche molti momenti ludici, visto che pure a lui piace giocare. Pare che sia piuttosto bravo nel calcio, dal momento che è finito a giocare addirittura nella nazionale italiana degli scrittori. Ruolo: terzino. “È un ruolo che mi piace e in cui mi rivedo anche nella vita. Puoi partire da un angolo del campo e lanciarti verso qualunque cosa. E io mi sento un po’ così: ho le spalle al muro e poi parto. Via”. Nemmeno Cabrini o Maldini avrebbero qualcosa da aggiungere.
Prima di lasciarlo scappare, magari dribblando qualche richiesta di autografo, gli chiediamo che cosa ha in mente per il futuro prossimo. “Attualmente sono impegnato nella promozione di Nel mare ci sono i coccodrilli. Sta uscendo anche all’estero, in ventisei paesi, quindi penso che passerò un sacco di tempo in viaggio. Poi, nel corso del 2011, mi tufferò con calma nella scrittura del libro nuovo.”
Chissà se ci saranno di mezzo altri ragazzini. Molto probabilmente sì. Quel che più conta è che Fabio Geda continuerà a scrivere e che il suo pubblico continuerà a leggerlo. D’altra parte, da un terzino-educatore-insegnante mancato non ci si può aspettare nulla di male. E i pescatori di storie lo sanno bene: hanno già l’amo pronto.