Dissacrante, enciclopedico, Grand Vieux
di Marina Rota
Certi baroni…
Le frecciate più velenose di Gorlier erano dirette ai baroni universitari, detentori di un potere straordinario, nonostante insegnassero “solo tre ore alla settimana”, ai loro intrallazzi e manovre di corridoio per assegnare una cattedra.
L’intenzione del giovane Gorlier era laurearsi in Francesistica con Ferdinando Neri, e fu l’evasività dello stesso Neri a fargli invece chiedere la tesi a Federico Olivero. L’argomento proposto dallo studente era T. S. Eliot; scrittore del quale, secondo Gorlier, il relatore – che aveva gli rifiutato la tesi su Whitman a Pavese – ignorava perfino l’esistenza.
Il suo secondo relatore, Francesco Pastonchi, soprannominato amabilmente Fastronzi dagli studenti, fece laureare Claudio con la media degli esami – 105 – contestandogli il fatto che un inglese americanizzato come Eliot non poteva capire nulla di Dante.
Ricordava Giovanni Getto, che definiva “uomo difficile, intellettualmente affascinante, e pieno di manie; odiato da generazioni di studenti”; il critico e poeta Arturo Graf, col suo saggio sconosciuto ai più sull’anglomania del 700; Edoardo Sanguineti; Silvio d’Arco Avalle, uno dei fondatori della semiotica; il filosofo Gianni Vattimo che, giovanissimo, condusse con Claudio la trasmissione Orizzonti; Pablo Avila (“un perfetto hidalgo”). Senza trascurare il grandissimo ma innominabile M.P., commemorato da un trionfo di gustosi episodi che confermavano la sua fama di iettatore: la studentessa con un enorme mazzo di fiori che all’improvvisa comparsa di M.P. cadde rovinosamente dalla lunga scalinata dell’aula magna, o l’imprevedibilea tempesta magnetica che si scatenò durante un viaggio aereo in sua compagnia… Fino ad arrivare a Claudio Magris, definito da Gorlier “uomo incantevole” (definizione data anche al giornalista e scrittore Piero Bianucci), col quale si era stabilito il vezzo di definirsi reciprocamente “l’altro Claudio”.
Solutore di enigmi
Tanto torrenziale come conversatore quanto affetto da una deliberata pigrizia nello scrivere: non gli articoli per La Stampa, che batteva velocemente a macchina, inviandoli poi in redazione col suo vecchio fax e senza un refuso. Ma i libri: pur avendone ben chiara in mente la trama, e preavvisandomi del fatto che avrei dovuto collaborare alla loro stesura – come quei volumi sugli Stati del Sud, su certi vecchi crimini torinesi irrisolti dei quali Claudio aveva trovato la chiave, o sulla tragedia del Grande Torino a Superga, su cui aveva elaborato una sua personale e interessante teoria – non videro mai la luce.
Essere grandi senza sminuire gli altri
Claudio era una sonda nell’interpretare il comportamento altrui, e nell’individuare le invidie così diffuse ovunque, soprattutto nell’ambiente editoriale. Fino all’ultimo, pur mantenendo con tutti l’abituale cortesia, fu consapevole dei reali intenti di chi lo frequentava, anche perché, come ripeteva con orgoglio, “sai, io mi diletto di psicoanalisi”. Lui non conosceva l’invidia poiché non avvertiva la necessità di sminuire gli altri per sentirsi più grande; e se non faceva sconti a nessuno, sapeva riconoscere i talenti altrui. Non dimenticherò mai i pomeriggi trascorsi nel suo salotto a declamare i miei sonetti riguardanti la liaison fra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, poi raccolti nella silloge Amalia, se Voi foste uomo…: Claudio, affondato in poltrona, batteva le mani come un ragazzo, fra ampie volute di fumo, gridandomi “Che talento!”, e dopo vari incontri scrisse le sue belle note critiche al libro: note che rappresentano il mio orgoglio e, purtroppo, anche la sua ultima pubblicazione. Claudio non riuscì più a partecipare alle presentazioni e ai premi riguardanti il mio libro, ma ne seguì con trepidazione le sorti, come quelle di una creatura anche sua, interpretando le parole e i silenzi che gli venivano dedicati.
Il 4 marzo 2016, in collaborazione con l’amico Cesare Borrometi, organizzai una serata in suo onore in un palazzo storico di Chivasso: due attori a declamare le sue poesie preferite, due ragazzi con la chitarra a suonare le canzoni americane anni Sessanta; e lui stesso, colto di sorpresa, ad esibirsi in prima persona nella lettura di Acquaintance of the night di Robert Frost…. Claudio, al quale non faceva difetto una simpatica vena di narcisismo, ne fu estasiato, e fino all’ultimo ricordò sempre quella serata come la più bella della sua vita.
Indimenticabile Grand Vieux
Anche quando la malattia parve investirlo fisicamente e psicologicamente come la lava di un vulcano, il novantenne Claudio non apparve mai come un vecchio debole e inerme, ma come un Grand Vieux che fino all’ultimo seppe emanare rispetto e carisma.
Aveva la svagatezza tipica di tanti intellettuali: come ricorda Gianluigi Beccaria nel suo Alti su di me, quando lo invitai a presentare al Teatrino Civico di Chivasso, un libro dello stesso Beccaria, Claudio parlò di quello precedente, con divertita sorpresa dell’autore.
Claudio era un goloso matricolato, e al termine delle visite alle Molinette si avventava sul torrone del banchetto Sebaste in corso Bramante, senza darmene nemmeno un pezzetto.
Claudio mi presentò quello che divenne il mio ultimo compagno, “un raffinato intellettuale”, americanista come lui, che lo ha preceduto nel misterioso Altrove.
Ultimamente citava spesso, con quella sua bella voce che ancora riecheggia in me, l’ultima battuta del Caligola di Camus,che riferiva a se stesso. Caligola, cadendo morente sotto le pugnalate dei congiurati, gridava “Je suis encore vivant!”. Claudio Gorlier resterà sempre così: encore vivant, nella mente e nel cuore di chi gli ha voluto bene.
Soprattutto, Claudio era il mio amico, quello a cui si può dire la frase più bella del mondo: “Ci sentiamo domani”.
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