Negli anni ’60 una rivista fece nascere gli studi di cinema a Torino
di Marco Doddis
“Il cinema neorealista italiano, come tutto il buon cinema, dovrebbe costituire materia di insegnamento nelle scuole”. Era il 1974 quando Ettore Scola, nel suo C’eravamo tanto amati, metteva in bocca questa affermazione al personaggio di Nicola Palumbo. In una scena del film, il professore di Nocera Inferiore, interpretato da Stefano Satta Flores, si presentava a Lascia o Raddoppia per rispondere a domande sulla storia della Settima Arte. All’inizio della puntata in cui concorreva, Nicola travolgeva il perplesso Mike Bongiorno con una breve ma appassionata invettiva sull’importanza del cinema come elemento fondante della cultura di ogni italiano.
Non si tratta certo del passaggio più significativo del capolavoro di Scola, ma quella scena rimane una diapositiva efficace di un particolare momento della storia nostrana. Infatti, alla fine degli anni Cinquanta (il momento in cui è ambientata la scalata milionaria, poi fallita, di Nicola Palumbo), intellettuali e studenti iniziavano a muoversi affinché il sistema scolastico-universitario italiano respirasse un po’ di aria fresca. La stessa aria fresca che, nel Sessantotto, avrebbe soffiato con l’impetuosità di un tornado. Proprio l’insegnamento della storia del cinema veniva avvertito come esigenza primaria da coloro che volevano farla finita con la cultura delle élites e che proponevano programmi accademici sempre meno archeologici.
In un contesto del genere, un ruolo da protagonista fu recitato da Torino e dalla sua università: basti pensare che proprio nel capoluogo sabaudo si tenne il primo corso organico di cinema ed estetica cinematografica: correva l’anno accademico 1959-’60; il docente era Mario Gromo, storica firma de “La Stampa”. gNello stesso periodo, per l’esattezza nel settembre del 1958, l’inaugurazione del Museo Nazionale del Cinema, con sede a Palazzo Chiablese (la Mole sarebbe arrivata quarant’anni dopo), dimostrava come Torino stesse costruendo le basi di un suo “sistema cinema”. Si trattava di una piccola rinascita, dopo i gloriosi tempi del cinema muto.
Dietro le quinte di quella rinascita, i cui effetti sono percepibili compiutamente oggigiorno, operò in modo determinante una rivista, universitaria ovviamente, che tanto sarebbe piaciuta al Professor Palumbo. Si chiamava Centrofilm.
Centrofilm fu un’esperienza, una passione, un progetto. Rappresentò l’esempio di un impegno culturale portato avanti da un manipolo di giovani, consapevoli che il loro momento stava per arrivare. Costoro si riunivano nel cosiddetto Cuc, il Centro Universitario Cinematografico, uno tra i tanti che andavano sorgendo come funghi negli atenei italiani (il primo vide la luce a Padova già dopo la guerra). Da Pavia a Catania, da Milano a Cagliari, gli animatori dei Cuc organizzavano proiezioni, discutevano tra loro e pubblicavano scritti. Non era la semplice idea del cineforum, ma qualcosa di più. Si trattava di una proposta nuova, fatta dagli studenti per gli studenti.
Nelle riunioni dei vari Cuc venivano piantate quelle radici di attivismo e protagonismo giovanile che sarebbero germogliate alla fine del decennio. Qualcuno dei protagonisti dell’epoca ha dichiarato che il Sessantotto cominciò proprio nei Cuc. Una forzatura? Assolutamente no, se si considera la funzione che le pellicole iniziarono ad assumere per i ragazzi dell’epoca. Pensando, ad esempio, al celebre “Maggio francese”, va ricordato che esso fu innescato dalle proteste di critici e registi contro la cacciata di Henri Langlois dalla direzione della Cinémathèque. Il concetto è chiaro: ovunque, in quel periodo, i giovani facevano del cinema uno degli strumenti più attivi per portare avanti la loro rivoluzione.
Centrofilm, a dire il vero, non era una rivista di battaglia. Durante i suoi sette anni di vita, dal 1959 al 1966, l’impegno politico si registrò solo nell’ultimo periodo editoriale, anticipando l’esperienza di una delle pubblicazioni torinesi più significative del Sessantotto: Ombre Rosse.
Addirittura, prima di partorire Centrofilm, il Cuc pareva indirizzato a occuparsi di supporto alla didattica tradizionale, proiettando soprattutto documentari, film geografici, medici o tecnico-industriali. Fu il suo presidente a indirizzarne l’attività su un’altra strada, quella dei film d’arte, del recupero e rivalutazione di opere del passato o semisconosciute.
Quel presidente era Gianni Rondolino, uno che poi avrebbe fatto la storia della cultura cinematografica torinese. Rondolino, il vero artefice della rivista (ne fu direttore per i primi tre anni), trovò nella redazione di Palazzo Campana la sua prima palestra di critica cinematografica. Insieme a lui si alternarono giovani alle prime armi che sarebbero poi diventati giornalisti, docenti, registi, scrittori: Bruno Voglino, Corrado Farina, Pietro Pintus, Gianni Volpi, Paolo Bertetto e Goffredo Fofi erano solo alcuni di quegli aspiranti critici. L’originalità dei contributi, che caratterizzò sin dall’inizio la rivista, attirò anche le attenzioni di alcuni mostri sacri del settore: fu così che vi apposero la loro firma personaggi del calibro di Francesco Bolzoni, Ugo Casiraghi, Tullio Kezich e Mario Verdone.
Oggi, sfogliando gli ingialliti quaderni di Centrofilm, tutti reperibili presso la biblioteca del Museo del Cinema, si ha l’impressione di compiere un viaggio all’indietro nel tempo. Nella rivista abbondano i riferimenti a un mondo che non c’è più; soprattutto, a una città che non c’è più. Tra le righe dei contributi critici si scorgono il boom delle sale d’essai, tipico di quegli anni (il Nuovo Romano, inaugurato nel 1958, offrì a Torino l’ennesimo primato nazionale), l’organizzazione di coraggiose rassegne locali, come quella sul cinema amatoriale e su quello di fantascienza, il resoconto di interminabili dibattiti immersi nel fumo al Collegio San Giuseppe o all’Istituto Sociale, l’invito ad abbonarsi, per poche centinaia di lire, ai cicli su questo o quel regista tenuti in qualche vecchio cinema oggi scomparso, come il Cor di Via San Francesco da Paola, il San Secondo di Via Gioberti o il vecchio Bernini nell’omonima piazza.
Tuttavia, a parte ill fascino retrò di una Torino in bianco e nero ancora lontana da autunni caldi e sanpietrini, la (ri)scoperta di Centrofilm assume dei connotati che vanno ben oltre le suggestioni della memoria. In una prospettiva storica, infatti, l’alacre opera dei membri del Cuc di Torino rivestì un’importanza notevole per almeno tre motivi.
Innanzitutto, offrì un contributo al dibattito cinematografico dell’epoca, proponendo analisi avvedute e spesso di portata innovativa: fu infatti la prima pubblicazione universitaria ad affrontare la Nouvelle Vague e la prima rivista italiana in assoluto ad offrire un’analisi organica sull’opera di Ingmar Bergman; poi, tramite la penna di Ugo Casiraghi, critico de L’Unità, lasciò un ampio studio sul cinema cinese, un unicum, per l’epoca, addirittura a livello europeo; inoltre, si adoperò per riscoprire pagine del cinema italiano come quella legata a Giovanni Pastrone, ritenute poco significative dalla critica ufficiale.
In secondo luogo, Centrofilm riuscì a stabilire una proficua collaborazione con il neonato Museo del Cinema. Grazie soprattutto all’amicizia di Rondolino con la fondatrice Maria Adriana Prolo, la rivista iniziò a fare pubblicità al Museo e divenne la voce scritta delle sue prime retrospettive. Insomma, quella che è una delle istituzioni culturali della città ebbe come sua prima rivista proprio Centrofilm.
Infine, i quaderni del Cuc riuscirono a portare la materia “cinema” dentro l’università. L ’ateneo torinese fu il primo a dotarsi di un corso della durata di un anno, dopo un paio di esperimenti tentati dall’Università di Milano con Guido Aristarco (che nel 1969 sarebbe diventato il primo titolare di una cattedra italiana di Storia del Cinema, ovviamente a Torino). Furono Rondolino e i suoi a invitare Mario Gromo a tenere un ciclo di lezioni per gli iscritti della Facoltà di Giurisprudenza.
Un gruppo di ragazzi, dunque, diede piena legittimità accademica all’insegnamento del cinema. Succedeva a Torino, ma lo stesso processo si stava mettendo in moto nelle altre università del Paese. Quel processo avrebbe fatto certamente felice uno come il Professor Palumbo di C’eravamo tanto amati. “Il cinema nelle scuole”, diceva lui. Peccato che, dopo cinquant’anni, il cinema sia rimasto solo nelle università. Per il salto tra i più giovani, servirebbe finalmente un altro Palumbo. O un’altra Centrofilm.